La parità e il neutro sociale

Geneviève Fraisse*

Il principio di uguaglianza tra i sessi oggi si riveste della parola «parità». Il termine si adatta alla nostra vita democratica nella sua totalità, chi lo negherebbe? Ma da qualche anno abbiamo avuto bisogno del termine «parità» per rilanciare la questione, il problema della parità tra i sessi. La parità è un vestito dell'uguaglianza, uno strumento per produrre più uguaglianza tra i sessi. Il suo obiettivo non consiste nel fare della matematica sociale con un'improbabile contabilità nella quale il numero di uomini e di donne sia fissato per sempre. Il suo obiettivo è che i due sessi condividano i luoghi del potere, che la loro compresenza, scolastica e culturale, sia una compresenza di potere, responsabilità e potere decisionale. La politica deve essere mista. Si può sorridere sul fatto che, in Francia, occorra usare un termine nuovo per rinnovare il femminismo, ma è così. Se si ricorda che questo dibattito è nato sia da parte dei verdi e dei militanti associativi che da parte delle donne dei partiti politici, la sua ampiezza appare immediatamente: il termine «parità» esplora tutti i luoghi di potere e decisionali indicando quanto vi siano assenti le donne. Questo termine è un dispositivo che genera consapevolezza: il potere, in Francia, resta fondamentalmente maschile; e le disuguaghanze tra i sessi perdurano.

Ho percorso i dibattiti sulla parità, nelle associazioni come nei gabinetti ministeriali, con una sola formula, l'inversione di una celebre espressione kantiana: «La parità è vera in pratica e falsa in teoria». È vera, in quanto concentra contemporaneamente sia la denuncia di un potere maschile che l'utopia di una divisione tra uomini e donne di questo stesso potere. È falsa in quanto la parità non è qualcosa al di là dell'uguaglianza, non è un principio supplementare, un supplemento alla democrazia.

La riforma costituzionale, cui si sta ora procedendo in Francia, si basa su tre principi. Il primo sottolinea una necessità, quella di riaffermare la parità tra i sessi presente nel preambolo della Costituzione francese. Dal momento che questo preambolo si dimostra insufficiente a produrre l'uguaglianza concreta, diciamo che l'iscrizione all'art. 3 prende atto degli ostacoli nella realizzazione di uguaglianza e vuole forzare il passaggio dal formale al reale. Il secondo sottolinea la novità di questa iscrizione dell'uguaglianza al di fuori dagli articoli abituali consacrati al «senza distinzione» di razza, di classe, di sesso, di religione ecc. Liberare il sesso dalle «categorie dell'universale» citate nell'art. 1 della Costituzione francese e in molte Dichiarazioni dei diritti dell'uomo (universale, dell'ONU) significa mettere fine a una tradizione occidentale, quella che a partire dai Greci fa si che le donne siano viste come un gruppo particolare tra gli altri, che le donne non siano mai pensate senza essere associate ai bambini, ai servitori, ai pazzi, agli ebrei.

La terza constatazione sottolinea la scommessa di questa riforma, la ridefinizione della sovranità. L'art. 3, integrando la necessità di un «pari accesso delle donne e degli uomini ai mandati e alle funzioni», presuppone la ridefinizione del popolo sovrano, della sovranità e del suo esercizio. Questa sarà la conseguenza di tale riforma. Ricordiamo: prima l'universale democratico era incarnato nella persona del re, nel suo stesso corpo. Incarnazione è la parola forte che indica il reale esercizio della sovranità. Due secoli di astrazione democratica, di astrazione maschile, si chiudono; si apre allora un'era nuova, quella dell'incarnazione della sovranità da parte dei due sessi. Non si tratta di fondare il politico sul biologico. Si tratta di ridefinire la sovranità e l'esercizio della sovranità democratica con questo universale concreto che è l'umanità sessuata. La parità politica significa -e questo principio inizia a essere riconosciuto -che è tempo che dall'Assemblea nazionale ai consigli d'amministrazione delle imprese, dai giurati universitari alle elezioni professionali e sociali, gli uomini dividano il potere con le donne.

Ciononostante il potere non è mai unico, non è mai univoco. Perciò la parità si qualifica con diversi aggettivi, almeno tre: politica, linguistica e domestica. Analizziamo quindi gli aggettivi della parità.

La parità è linguistica in quanto l'universale della lingua, dove «il maschile supera il femminile», appare improvvisamente relativo a un periodo storico, quello degli ultimi due secoli. La nostra democrazia ha il dovere di costruire l'uguaglianza tra i sessi fino ai confini riservati, i luoghi simbolici, il governo, la rappresentazione, la lingua. A chi bisogna ricordare che la lingua è un potere? Il rifiuto del femminile per i titoli e le funzioni svolte dalle donne è il rifiuto del loro accesso a queste funzioni. Noi conosciamo troppo bene la sovrapposizione dell'universale e del maschile nel pensiero e nella storia democratica per fare ciecamente o lucidamente affidamento al neutro. Come spiegare che chi difende il neutro non ha fiducia nella propria lingua, nel cambiamento della lingua? L'uso del femminile per i titoli e le funzioni, che non è la femminilizzazione virtuale della repubblica, è la condizione per un accesso uguale delle donne e degli uomini alle professioni del potere, che sono delle professioni interessanti, occorre ricordarlo?

La lingua permette prima di tutto di nominare, di dare un nome a una cosa, di designare tramite il nome un'identità. Le donne, oggi ministre e deputate, sono state nominate dal governo e dal popolo per incarnare il potere esecutivo e legislativo. Essa sanno tutte che il loro titolo al femminile non valorizza la loro funzione in quanto, al contrario, valorizza la loro persona. Si tratta infatti di utilizzare un titolo al femminile e non di femminilizzare un titolo. Per un eccesso di semplificazione, con questa parola «femminilizzazione» si fa capire molto di più di quanto non si dovrebbe: nessuno propone ragionevolmente di femminilizzare la lingua, non più che la società. Anche lì si introdurrebbe un gioco tra i cosiddetti valori, maschili e femminili.

Non è sufficiente avere il potere per essere democratici; bisogna dividere il potere. Questa è l'idea-forza che sostiene la lotta per la parità. Allora, posso dire che la parità deve essere anche domestica. Dimentichiamo l'arcaico dibattito sull'appartenenza della famiglia alla laicità o alla religione. La famiglia è un luogo di governo, dicevano i teorici dell'Ancien Régime. Annulliamo l'analogia tra la famiglia e lo Stato, ha detto Rousseau. Anche in questo caso, due secoli di contratto sociale senza riflessione sul legame tra i due luoghi di governo, domestico e politico, hanno lasciato spazio al fantasma di una famiglia assorbita dall'atomizzazione dell'individuo democratico.

La nuova legge creando il PACS, Patto civile di solidarietà tra due persone dello stesso sesso o di sesso diverso, contribuisce a rinnovare la rappresentazione dello spazio privato, non perché sia differente o somigliante al matrimonio, ma perché richiede che sia ripensato il legame tra privato e pubblico, e perché si riallaccia al pensiero del governo domestico. Il privato non è solo un luogo di solidarietà (complemento sociale all'isolamento democratico), è un luogo di decisioni, di divisione delle decisioni, di potere, di responsabilità. Da qui la necessaria parità domestica. Nella famiglia si esercita un potere e si proietta la speranza di un futuro. È il luogo del governo domestico, a lungo analogo, per i teorici dello Stato, al governo politico. Ma il marito e il padre, simile al re, non esistono più. La loro autorità ormai viene divisa con la madre, mentre la donna ha trovato l'indipendenza grazie al lavoro retribuito. Perché vi è la necessità di definire questa situazione, effettivamente abbastanza nuova, di parità domestica? Perché la famiglia è un luogo di potere.

La politica della famiglia non è solamente la politica famigliare dello Stato. E uno spazio di dibattito e di decisione democratica tra l'uomo e la donna. La storia recente ha mostrato come riconoscere in ogni membro della famiglia l'individuo democratico con i suoi diritti autonomi. Altra cosa è ormai vedere nello spazio familiare il luogo della democrazia. In nessun caso si tratterebbe di abolire il rapporto di autorità tra genitori e figli. Al contrario, si tratterebbe di restituire ai congiunti e ai genitori la loro realtà di scambio e di comunità. Questo è ciò che io chiamo la parità domestica, in quanto la messa in comune di una vita famigliare non è solamente la gestione economica e funzionale, la divisione degli eventuali compiti inevitabili nella doppia giornata delle donne, come è stato troppo a lungo sottolineato dalla sociologia. La famiglia è un luogo di divisione delle responsabilità e delle decisioni; o meglio, un governo domestico. La cura dei figli è sicuramente compito dei due genitori, della coppia, e non solamente della madre, e i diritti del padre non si potrebbero concepire senza i doveri. Se ci fossero solo i diritti, allora lo scambio non avrebbe luogo, l'individuo sarebbe isolato. Se quindi la democrazia ha invaso la famiglia, ciò che temeva Tocqueville, non è per produrre degli individui astratti, cittadini membri di un gruppo famigliare; è per permettere che la famiglia e lo Stato siano i due luoghi di governo, domestico e politico, in armonia con i nostri ideali democratici di autonomia e di comunità. Come lamentarsi allora che un patto di solidarietà tra due persone sia una difficoltà, visto che ciò che preme è l'idea che il privato sia uno spazio analogo allo spazio pubblico?

Allora tutto è sessuato? Non c'è modo di dimenticare il sesso, nella lingua, nella politica, nel privato? Io vedo già l'ironica stanchezza nello sguardo di quelli che regnano senza condivisione. Essi possono rassicurarsi, grazie a una storia non molto divertente. Oggi che l'idea di parità sta facendo traballare la certezza del neutro universale, altrove, nel sociale, il neutro, la neutralizzazione dei problemi e diventata la regola. In effetti, la fine di un diritto di protezione per le donne si è tradotta con l'univocità delle rappresentazioni: non ci sono più ragazze madri né madri nubili, ci sono delle famiglie monoparentali e dei genitori isolati. La violenza dei giovani, la pedofilia, il tempo parziale e altre realtà sociali si declinano al neutro quando esse concernono soprattutto un sesso o l'altro. E stato un progresso, un mezzo per non stigmatizzare una categoria, notoriamente sessuale. Si tratta ormai di una perversione. Non identificando i soggetti sofferenti, discriminati, noi riportiamo sul sociale la difficoltà che è stata quella del politico: parlare al neutro e mascherare di fatto i problemi. Nell'ora della parità, è il sociale che usa il neutro universale per nascondere la disuguaglianza. Vero paradosso moderno, per questo governo come per i tempi a venire.

Noi viviamo un momento storico importante e la riforma sulla parità non si deve sbagliare: sì, l'uguaglianza tra i sessi può aiutare la democrazia nel passaggio dal formale al reale; sì, la parità si può declinare con i suoi aggettivi, politica, linguistica, domestica. No, non c'è una parità economica, perché l'attività economica è una questione sia di uguaglianza che di libertà, e la parità rivela unicamente l'uguaglianza. Bisogna battersi per l'uguaglianza professionale, quella dei salari e delle carriere. Ma bisogna anche battersi per la libertà delle donne a non subire «il tempo parziale scelto». Nello spazio economico, le donne stanno perdendo. 1 salari bassi, il sottoimpiego, la povertà sono delle realtà femminilizzate. In termini economici, l'ineguaglianza tra i sessi cresce e sarà senza dubbio una delle fratture sociali del domani.

Lo spazio sociale diventa un luogo dove si parla al neutro quando il politico sottolinea la sessualizzazione della società. C'è come un transfert, da un lato il politico rompe con il dominio dell'universale maschile, dall'altro il sociale sceglie di non lasciar più vedere le differenze tra i sessi. Sapremo proseguire con questo doppio movimento in modo da superare questo paradosso? Sapremo seguire senza perderci il cammino unico dell'uguaglianza? La democrazia è un fatto di vita sia politica che sociale. Oscillare tra la parità politica e il neutro sociale non saprebbe aiutarci a vivere, a produrre l'universale concreto che desideriamo. Non scegliamo la parità contro i diritti delle donne. La lezione sarà rude, ma l'attuale posta in gioco è lì. La riforma della parità ha senso solo se essa ha questo effetto trainante in tutti gli spazi e a tutti i livelli della vita sociale. La parità è l'uguaglianza che parte dall'alto e, in questo modo, può facilmente diffondersi ovunque. Ma si tratta di un gioco tra rinuncia e rilancio.

*Tratto da Adultità, quaderno n. 2, supplemento alla rivista al n. del 10 novembre 1999. Traduzione di Diana De Marchi. Geneviève Fraisse: filosofa francese, deputata europea, ex delegata interiministeriale ai diritti delle donne.