Principio di non discriminazione, differenza sessuale, eguaglianza, differenze

di Maria Grazia Giammarinaro


Il divieto di discriminazione è presente nella Dichiarazione universale e in molte Convenzioni internazionali. Tuttavia il principio di non discriminazione acquista oggi un significato più pregnante in conseguenza di alcuni grandi fatti di diverso segno e natura, ma tutti di portata storica: l'emergere della soggettività femminile come potente fattore di mutamento sociale, i flussi migratori e il connesso problema del multiculturalismo, i tragici conflitti interetnici nell'ultimo decennio, la diversificazione delle scelte e degli stili di vita. Tutto ciò pone il problema di una rivisitazione della tematica delle discriminazioni. Ne è una riprova il fatto che anche il Trattato europeo di Amsterdam del 1997 rilancia il principio di non discriminazione, con una formulazione che per la prima volta allarga le cause di discriminazione da quelle già previste nella Dichiarazione universale e in molte Costituzioni, come la razza, la religione, la lingua, ad altre quali la disabilità, l'età, l'orientamento sessuale.

Gli sviluppi della discussione sul principio di non discriminazione riguardano tutto il complesso degli strumenti internazionali, a cominciare dal protocollo addizionale alla Convenzione di New York sulle discriminazioni contro le donne (CEDAW), entrato in vigore nel marzo del 2001 grazie al raggiungimento della decima ratifica, che è stata proprio quella dell'Italia.

L'interpretazione progressiva del principio di non discriminazione richiede innanzi tutto una revisione dell'impostazione teorica relativa al rapporto uguaglianza-differenza, che valorizzi alcuni collegamenti significativi, in particolare il nesso tra principio di non discriminazione e politiche di pari opportunità, e quello tra principio di non discriminazione e strategie di protezione-promozione dei diritti umani.

Stabilire il nesso non discriminazione-pari opportunità implica il tenere costantemente insieme due diverse dimensioni: la possibilità di reazione al trattamento deteriore causato dalla differenza e le politiche positive di promozione dei diritti sociali e culturali. L'altro nesso significativo è tra principio di non discriminazione e differenza. La traduzione del principio di non discriminazione in norme positive ha seguito - e da un certo punto in poi ha favorito - la tendenza affermata prima dai neri d'America, poi da altri gruppi razziali ed etnici, parallelamente dal femminismo, infine dal movimento degli omosessuali, all'affermazione della propria differenza non più soltanto in chiave di reazione ai comportamenti discriminatori ma anche come fonte di identità. La linea di politica del diritto che appare più coerente con il portato di questi poderosi fattori di mutamento sociale spinge verso una rivisitazione del principio di uguaglianza, del rapporto tra uguaglianza e differenza, del trattamento giuridico delle differenze.

Il primo aspetto della valorizzazione delle differenze riguarda la costruzione dell'identità, individuale e di gruppo. Si tratta di due dimensioni non sempre armoniose, talvolta apertamente conflittuali. Qui interessa sottolineare un elemento, relativo alla costruzione dell'identità come percorso originale, sganciato dal confronto con uno standard prefissato e ritenuto preferibile, in termini giuridici o fattuali, ricalcato sul maschio bianco, adulto e possidente, normodotato, eterosessuale. Le politiche attuative del principio di uguaglianza vanno riconsiderate alla luce di questa acquisizione. Il parametro di valutazione sarà non tanto l'adeguatezza a promuovere adattamento rispetto allo standard, ma l'attitudine a favorire percorsi di vita autoprogettati.

Il principio di uguaglianza va perciò reinterpretato intanto in relazione alla elaborazione storica - particolarmente ricca in Italia - riguardante l'uguaglianza sostanziale come eliminazione degli ostacoli fattuali che impediscono lo sviluppo della personalità e la partecipazione politica. Si trattava di un passo avanti decisivo rispetto a una concezione rigida dell'uguaglianza formale, che non teneva conto delle disuguaglianze di carattere economico e sociale. L'elemento di novità ulteriore è costituito dall'idea di strumenti, anche giuridici, finalizzati al riconoscimento che le differenze, individuali e di gruppo, non sono soltanto potenziale fonte di disuguaglianza e di svantaggio, ma sono anche orizzonte di senso e di valore. In questa chiave si potrebbe parlare delle politiche di pari opportunità, nel senso più lato del termine, come politiche volte a sostenere la costruzione di sé come percorso originale e creativo.

Le politiche di pari opportunità così intese costituiscono anche il sostrato economico-sociale che rende possibile e realistica la pratica di costruzione di sé, altrimenti destinata a restare solo una petizione di principio o al più il privilegio di una piccola minoranza; in questo senso vanno considerate come politiche volte ad assicurare opportunità valutabili secondo parametri di equità sociale, per donne e uomini (L. Balbo). Per questa ragione le politiche di pari opportunità possono comportare deroghe più o meno rilevanti al principio di uguaglianza formale, che non sono assimilabili ai tradizionali strumenti dell'uguaglianza sostanziale, e in particolare alle tecniche di tutela del lavoratore come contraente debole.

Il problema è individuare strategie di integrazione sociale mirate alla valorizzazione delle differenze. A questo proposito è ineludibile un giudizio sulle politiche centrate sull'affirmative action [ovvero, le azioni positive...], sperimentate negli USA con riferimento ai neri, alle minoranze etniche e alle donne. Com'è noto l'affirmative action subisce oggi un forte attacco, prevalentemente di destra, che fa leva sul sacrificio dei diritti individuali compiuto in nome dei diritti dei gruppi svantaggiati. Senza entrare nel merito della sua applicabilità in Italia, va sottolineato che anche al livello internazionale giuriste e giuristi da sempre sostenitori dell'affirmative action cominciano a interrogarsi sulla possibilità d trovare altri strumenti per favorire l'integrazione, sul presupposto che forse l'affirmative action si è rivelata inefficace nel lungo periodo, e ha polarizzato su di sé una serie di preoccupazioni e paure. L'importante è mantenere in piedi gli sforzi per costruire un futuro di integrazione, attraverso strumenti che oltre a costituire un rimedio per la passata esclusione, costruiscano soprattutto occasioni e modalità per un più impegnativo contatto tra gruppi, culture, status e condizioni sociali diverse1.

In ogni caso va ribadito che la frontiera dell'integrazione sociale intesa come percorso di valorizzazione delle differenze non può riportare indietro la comunità internazionale, verso una concezione arretrata e conservatrice dell'uguaglianza formale o verso la riproposizione dell'.integrazione sociale come tensione e sforzo individuale verso il perseguimento di un obiettivo coincidente con il modello predefinito che in una certa società e in un certo momento storico incarna la ricchezza, la cultura e il potere. Occorre semmai fare uno sforzo di inventiva e di progettualità, alla ricerca della migliore mediazione possibile tra individualità ed equità.

Il secondo aspetto di una strategia di valorizzazione delle differenze concerne l'apporto che culture e identità diverse possono dare alla costruzione di una società plurale, per condizioni personali e percorsi culturali. Purtroppo la storia recente ci dà esempi tragici di quanto questo impegno sia difficile e richieda l'inversione di linee di tendenza degenerative purtroppo ampiamente ancora in atto, che mirano invece alla riduzione all'indifferenziato, anche a costo di massacri e di sistematiche azioni di pulizia etnica. La stessa istituzione della Corte penale internazionale punta sull'efficacia deterrente di un diritto internazionale che preveda e punisca tali delitti.

E' del tutto aperta la questione di come una società che voglia fondarsi sulla convivenza di molte diversità possa realizzare una strategia di integrazione sociale che non sia fondata sulla generalizzazione di un modello culturale e/o di uno stile di vita dominante, e che nello stesso tempo metta in campo gli strumenti pratici, le condizioni materiali e sociali della convivenza e della comunicazione interetnica, così come della convivenza e della comunicazione tra progetti di vita differenti.

La questione, forse, è culturale e simbolica prima ancora che di politiche concrete. Occorre innanzi tutto apprendere a pensare la democrazia come un'eccitante compromissione con la differenza: la sfida dell'altro; la distruzione delle certezze; il riconoscimento delle ambiguità all'interno di noi stessi così come la differenza tra noi e gli altri2.

A questo punto occorre fare una puntualizzazione. La differenza sessuale non è assimilabile alle altre differenze menzionate dalla clausola di non discriminazione. Essa costituisce piuttosto un paradigma, la fonte di un insieme di saperi e di pratiche fondate sull'assunzione della differenza come fondamento e orizzonte di senso.

Questi saperi e queste pratiche rischiano oggi un'implosione, se non vengono messi a disposizione per una costruzione sociale - dell'economia, del sistema formativo, dell'ordinamento giuridico - che esca dalla dimensione della riduzione a unità e impari a fare i conti con la pluralità. In altri termini si tratta di creare mondo, di fare sì che il contesto storico-sociale per la prima volta possa essere rimodellato a immagine e somiglianza della differenza sessuale, e dell'idea stessa di convivenza-comunicazione-commistione.

Su questa strada occorre affrontare alcuni problemi teorici, del tutto aperti nel femminismo italiano e internazionale. Il più importante mi sembra quello posto dalla scrittrice afro-americana Bell Hooks, che sostiene la necessità di superare ogni residuo di essenzialismo, per valorizzare invece la dimensione individuale della soggettività femminile, i percorsi culturali che portano ciascuna a costruire la propria identità, all'incrocio di molte diversità3.

Le implicazioni di questa scelta sono molte e niente affatto scontate. In particolare, vanno superati i termini tradizionali della discussione e della contrapposizione tra i concetti di differenza sessuale e differenza di genere. Dal punto di vista dell'approccio giuridico si tratta a mio parere di trovare una terza via tra neutralizzazione del genere e costruzione giuridica della differenza, di rivalutare strumenti giuridici esistenti e inventarne di nuovi allo scopo di compiere due grandi operazioni: mantenere un ancoraggio al principio di uguaglianza, e nello stesso tempo valorizzare le differenze non come dato ontologico, fissato una volta per tutte - non importa se in termini biologici o culturali - ma come percorsi individuali e originali di autodefinizione, di invenzione di sé. Lo stesso principio di non discriminazione, allora, deve essere riletto ed attuato non come garanzia di un trattamento uguale, bensì come garanzia di un percorso originale di costruzione della personalità, in una continua dialettica tra dimensione individuale e collettiva dell'identità.


L'integrazione della tematica dei diritti delle donne nel diritto internazionale, come si vede, è questione complessa, i cui percorsi non sono sempre intuitivi. Talvolta, a partire dalla soggettività e dall'esperienza femminile, è necessario valorizzare la sessuazione del linguaggio giuridico e delle forme di tutela, come ad esempio nel caso dello stupro e dei delitti che violano il corpo-mente delle donne. In questo caso infatti vi è un grado di corrispondenza accettabile tra l'esperienza femminile e la sua rappresentazione giuridica, tra la libertà femminile e la costruzione concettuale dell'autodeterminazione in relazione alla sessualità e alle scelte procreative. Talvolta invece la sessuazione può giocare come fattore regressivo, se contribuisce a costruire una raffigurazione dell'offesa troppo centrata sul processo di vittimizzazione e sull'identificazione tra l'essere vittima e l'essere donna.

Quando si parla di repressione penale e di diritti delle donne, è necessario evitare che l'unica possibile ricerca di senso sia attorno alla vittimizzazione. In linea di massima nella costruzione delle norme giuridiche occorre a questo scopo puntare più sulla precisa individuazione del comportamento dell'autore che sulle cause di vulnerabilità della persona che subisce la violazione. Ma naturalmente le questioni sono quasi sempre assai più complesse. L'importante è tenere fermo il criterio generale.

Un'ultima considerazione. Fin dalla pubblicazione di Non credere di avere dei diritti, il femminismo italiano ha nutrito grande diffidenza nei confronti della strategia dei diritti. In passato ho considerato giustificata e ho condiviso la preoccupazione che un discorso sull'uguaglianza e sui diritti come percorso di pura e semplice inclusione nel modello culturale e di tutela dato potessero essere una perdita per la soggettività femminile, che sarebbe stata ineluttabilmente ingabbiata in schemi predefiniti, neutri, astratti, ignari della differenza sessuale e dell'esperienza femminile.

La situazione è in movimento, e che non esistono più paradigmi rigidi che non possano essere rimodulati allo scopo di accorciare la distanza tra esperienza femminile e norma giuridica. Soprattutto, mi sembra che il senso complessivo del processo sia nella direzione della problematizzazione e del confronto con l'orizzonte di senso della differenza, anche se non ancora della costruzione di un nuovo sistema concettuale di riferimento. In questo quadro, occorre riprendere in mano la riflessione sui diritti, e fare interagire il portato culturale della differenza sessuale con l'ordinamento giuridico. Ciò non solo oggi è possibile, ma se ne intravedono alcune possibili linee di tendenza.

A Pechino si disse che i diritti delle donne sono diritti umani. A cinque anni di distanza, il passaggio ulteriore potrebbe essere sintetizzato così: l'integrazione dei diritti delle donne nel sistema dei diritti umani opera come potente fattore critico di decostruzione–ricostruzione dell'ordinamento giuridico, poiché consente di rimettere a tema e rivisitare globalmente alcune categorie fondanti dell'ordinamento, dal rapporto tra uguaglianza e differenza, al rapporto tra corporeità, soggettività giuridica e beni fondamentali dell'umanità tutelati dal diritto, al rapporto tra natura e cultura, corpo e mente, appartenenza e identità, diritti e poteri. Sono sempre più convinta che per questa via si possa recuperare l'universalismo giuridico senza perdere di vista l'orizzonte di senso della differenza sessuale.





NOTE

1 M. Minow, Not only for myself. Identity, Politics and the Law, The New Press, New York, 1997.

2. A. Phillips, Dealing with Difference: A Politics of Ideas or a Politics of Presence?, in J. B. Landes (ed.), Feminism, the Public and the Private, Oxford University Press., 1998.

3. Bell Hooks, Elogio del margine, Feltrinelli, 1998

ICC-Declich.doc 17-1-2000