Migrazioni, diversità culturale, uguaglianza fra i sessi
Rapporto del gruppo di specialiste del Consiglio d'Europa, 1994*



IV. Barriere e ostacoli nella sfera pubblica



In questo capitolo esamineremo le barriere che le donne immigrate incontrano nella sfera pubblica, compresi temi quali il ricongiungimento familiare, il diritto al soggiorno e l’accesso al mercato del lavoro. Nell’audizione e nel seminario organizzati dal Gruppo, tutti questi temi sono apparsi come questioni di grande rilevanza. Esamineremo inoltre anche altre questioni relative ai diritti in materia di naturalizzazione, doppia nazionalità e diritto di voto.

Oltre alla segregazione professionale e sociale vissuta dalle donne immigrate, esistono differenza rilevanti anche ad altri livelli. In aggiunta ai problemi dei pregiudizi razziali e della xenofobia, degli stereotipi culturali, delle vere e proprie discriminazioni, le immigrate si trovano in una posizione svantaggiata anche nel sistema formale dei diritti. Nella maggior parte dei paesi europei fra i diritti politici, sociali, civili and economici di donne e uomini esistono delle differenze, a livelli diversi, così come esistono differenze fra popolazione immigrata e cittadini/e dei paesi di accoglienza.

Dai dati empirici si può desumere l’esistenza di differenze notevoli fra i diversi paesi per quanto riguarda i diritti delle donne in materia di ingresso e di residenza, di accesso al mercato del lavoro, di protezione sociale, ed in altri campi. Le leggi sull’immigrazione sono formulate in termini neutri dal punto di vista della differenza di genere, come esemplificato dall’uso del termine "coniuge" ("spouse"); in linea di principio le loro norme riguardano uomini e donne in modo egualitario. Nella maggior parte dei paesi, però, solo il primo componente della famiglia giunto nel paese, in genere il lavoratore maschio, ha diritto al permesso di soggiorno e di lavoro. Le donne che usufruiscono del diritto al ricongiungimento familiare ottengono solo diritti derivati, e pertanto divengono dipendenti dallo status del maschio capofamiglia e produttore di reddito. Ciò crea una forma di discriminazione indiretta, e diviene un ostacolo alla possibilità per le donne di decidere della propria vita e trovare una propria collocazione nella società di accoglienza.

Una caratteristica significativa della storia degli anni ’60 e ’70 è stata che ad essere reclutati ed accolti come forza lavoro nei settori industriali in espansione dei paesi dell’Europa occidentale, sono stati prioritariamente gli uomini. Le donne, ove venissero prese in considerazione, venivano considerate o come membri della famiglia, rimaste a casa nel paese d'origine, o come soggetti passivi, mogli e madri al seguito dei loro uomini. Le donne semplicemente non venivano considerate come soggetti attivi nel processo migratorio, né ci si attendeva che avessero un ruolo economicamente attivo. Anche se le ricerche hanno dimostrato che invece le donne hanno avuto ed hanno una presenza attiva nel mercato del lavoro, ovunque se ne presenti la possibilità lo stereotipo dominante, quello della moglie e madre chiusa in casa, isolata e dipendente dall’uomo, continua ad esistere. L’attività economica delle donne immigrate, sia single che coniugate, viene tuttora considerata un fenomeno marginale ed accidentale.

In molte società europee il modello del maschio capofamiglia e produttore di reddito è tuttora ideologicamente dominante, anche se per lo più non corrisponde alla realtà. Questo modello funziona da ostacolo alla parità di diritti e di trattamento fra donne e uomini in generale. Nel caso delle immigrate, esso ha contribuito a relegarle in una posizione secondaria e dipendente, rispetto alla posizione del titolare del permesso di soggiorno, che è in genere il marito. Questo aspetto è stato riconosciuto nei documenti della Commissione Europea, ed analizzato in diverse ricerche e rapporti. (...)

Per le immigrate, i primi ostacoli nascono attorno ai problemi del ricongiungimento familiare o della formazione di una famiglia. Il diritto fondamentale al ricongiungimento, in linea con quanto stabilito dagli articoli 8 e 14 della Convenzione Europea sui diritti umani, risulta un diritto spesso precario, circondato da una fitta rete di regole, lunghi periodi d’attesa, e subordinato a condizioni relative alla disponibilità di un alloggio adeguato, alla durata del matrimonio, a quanto tempo ha lavorato la persona che è immigrata per prima. In situazioni così, riunire la famiglia e riprendere una vita familiare normale nel paese di residenza del coniuge è spesso un processo lungo e complesso, che impone alle famiglie un forte stress psicologico, e che crea problemi soprattutto alle donne.

Un altro insieme di ostacoli riguarda il diritto ad avere un permesso di soggiorno e di lavoro autonomamente dal marito, per ottenere accesso al mercato del lavoro ed un lavoro regolare. (...) La disponibilità di un alloggio adeguato, inoltre, è considerata una condizione in assenza della quale non si può ottenere il ricongiungimento. L’adeguatezza dell’alloggio può essere stabilita o dalle autorità nazionali o da quelle locali. In alcuni paesi un’altra condizione riguarda il reddito della persona immigrata per prima, che deve superare una determinata soglia, ed il contratto di lavoro, che deve comportare una sicurezza del posto di lavoro per almeno un anno; altri paesi, invece, richiedono semplicemente che la persona abbia un reddito sufficiente al mantenimento del coniuge. Infine, una volta ottenuto il ricongiungimento, le strade per ottenere un permesso di soggiorno e di lavoro variano da un paese all’altro (...), così come le regole per il ricongiungimento nel caso di immigrati/e di seconda generazione. (…)

Nei paesi che impongono limitazioni ai diritti delle donne in quanto soggetti giuridici autonomi, possono sorgere una serie di gravi problemi e disuguaglianze. In assenza di sicurezza per quanto riguarda il permesso di soggiorno, le donne possono essere costrette a subìre rapporti di coppia insoddisfacenti, o anche violenti. In caso di divorzio o di morte del marito la donna rischia l’espulsione dal paese di accoglienza, e la perdita di accesso all’alloggio popolare, nei paesi dove tale accesso sarebbe altrimenti possibile. La mancanza di un permesso di lavoro nega alle donne l’accesso al mercato del lavoro regolare, con la possibilità di mantenere se stesse e i propri figli. Anche quando il soggiorno è stato regolarizzato, le donne spesso sono costrette ad accettare qualsiasi tipo di lavoro risulti disponibile, anche sottopagato e nel sommerso. Si tratta di posti di lavoro che non forniscono alcuna protezione sociale, né diritto al sussidio di disoccupazione, e che non sono tutelati dal diritto del lavoro. Il lavoro nell’economia sommersa rende la posizione delle donne ancor più precaria, le emargina, le rende invisibili; la loro partecipazione al mercato del lavoro ovviamente non è documentata nelle statistiche sull’occupazione.

Ottenere la cittadinanza del paese in cui si risiede è una via importante per ottenere la parità di diritti sociali, civili, nonché, cosa non meno importante, i diritti politici. L’acquisizione della cittadinanza è inoltre, per immigrati e immigrate, una tutela efficace contro il rischio di espulsione o deportazione, ed è il modo per accedere ad alcuni tipi di lavoro, nei paesi in cui essi sono riservati solo ai cittadini di quello stato. La naturalizzazione, inoltre, facilita l’integrazione di immigrati e immigrate, in quanto consente loro di incidere su tutto l’ambito dei processi democratici e decisionali, dando loro un senso di appartenenza alla società. La immigrate che hanno un posto di lavoro retribuito e adempiono ai loro doveri di contribuente, considerano l’accesso alla cittadinanza come un loro diritto.

Le norme che regolano la questione della naturalizzazione variano molto nei diversi paesi europei. In alcuni è facile, mentre altri fissano condizioni cui può risultare difficile far fronte, quali dimostrare di avere un orientamento sociale e culturale legato al paese di accoglienza, o di aver frequentato corsi di studi nel paese per un certo numero di anni, e così via. Le leggi in materia di nazionalità possono essere fondate principalmente sul principio dell’appartenenza territoriale, lo jus soli, oppure sui legami di sangue, lo jus sanguinis. Nei paesi che si basano sul principio della territorialità la naturalizzazione è relativamente più facile. I requisiti richiesti in genere riguardano un certo numero di anni di residenza stabile nel paese, determinati limiti di età ed una fedina penale pulita. Da notare che nei paesi dove il processo di naturalizzazione è relativamente semplice (come ad esempio la Svezia), sceglie di acquisire la cittadinanza una percentuale significativamente alta di coloro che ne hanno diritto.

In alcuni paesi (ad esempio i Paesi Bassi e il Regno Unito) la doppia cittadinanza viene già accettata di diritto, mentre in altri il tema è ancora in discussione, senza che sia stata trovata una soluzione. Tuttavia, anche nei paesi in cui la doppia nazionalità non è stata riconosciuta di diritto (come ad esempio in Svezia), essa viene accettata "di fatto", nei casi in cui il paese d’origine (come ad esempio la Grecia) non consente la rinuncia alla propria nazionalità originaria. Il diritto alla doppia nazionalità ha implicazioni psicologiche, oltre che giuridiche. La nazionalità d’origine è infatti spesso vissuta come una componente profondamente radicata dell’identità individuale, e rinunciarvi equivale, sul piano simbolico, ad una negazione delle proprie origini. Alcuni paesi d’origine impongono inoltre a chi non è più cittadino delle restrizioni in materia di diritto all’eredità, o delle difficoltà in caso di eventuale ritorno o reinsediamento nel paese d’origine.

La doppia nazionalità consente ad immigrati e immigrate, nonché alle minoranze, di partecipare ai processi democratici nel paese in cui risiedono, dando loro il diritto di votare e di essere coinvolti nelle decisioni che incidono sulla loro vita nella stessa misura in cui incidono sulla vita della maggioranza della popolazione. Un modo di evitare la sovrapposizione fra due diversi doveri di fedeltà alla nazione, potrebbe essere quello di suddividere la doppia nazionalità in una legata alla cittadinanza attiva, mentre l’altra sarebbe meramente passiva. I diritti e doveri legati alla cittadinanza originaria rimarrebbero pertanto in condizioni di latenza, per riacquistare vitalità solo nel caso in cui la persona rinunci alla nazionalità del paese di residenza. La cittadinanza attiva, insomma, sarebbe legata alla residenza, e comporterebbe il godimento di tutti i diritti e l’adempimento di tutti i doveri nel paese di residenza. La doppia nazionalità potrebbe risultare particolarmente importante per le donne, che più frequentemente degli uomini sono state escluse dalla parità di diritti e dalla protezione sociale nei paesi di accoglienza. Nella società di accoglienza le immigrate (che in molti casi sono molto attive nell’associazionismo) potrebbero ad esempio presentarsi alle elezioni.

Sulla questione della limitazione del diritto di voto solo a chi detiene la cittadinanza, il Gruppo concorda con il Rapporto sulle relazioni comunitarie (Community Relations Report, Consiglio d’Europa MG-CR (91) 1 final), il quale propone che il criterio principale in base al quale attribuire diritti e doveri sia preferibilmente la residenza, e non la nazionalità. Il Rapporto sottolinea come nel processo di integrazione europea i processi decisionali siano sempre meno prerogativa esclusiva degli stati-nazione. Mentre alcuni paesi continuano a discutere sul diritto di voto agli stranieri, senza giungere ad alcuna conclusione, alcuni paesi hanno comunque reso possibile alla popolazione immigrata partecipare ai processi democratici e alle decisioni politiche, senza porre come requisito la cittadinanza. In Irlanda, nei Paesi Bassi, in tutti i paesi nordici, in Portogallo, in due cantoni svizzeri (Neuchatel e Jura), nonché (secondo il principio di reciprocità) in Spagna, agli stranieri è garantito l’elettorato attivo e passivo nelle elezioni amministrative, dopo alcuni anni di residenza regolare nel paese (vedi MG-CR (91) 1 final). (La questione si pone in misura più limitata nel Regno Unito, in quanto tutti i cittadini del Commonwealth hanno diritto di voto, e tali diritti non sono basati sulla residenza).

I diritti elettorali in quanto tali non sono legati al sesso, ma, come indica l’esempio svedese, le donne immigrate esprimono una forte volontà di far sentire la propria voce, e di incidere sui processi politici. In tutte le elezioni tenutesi in Svezia a partire dalla prima volta in cui ciò è stato possibile, nel 1976, e contrariamente agli stereotipi classici della donna immigrata passiva e segregata, è costantemente aumentato il numero delle immigrate e degli immigrati che hanno fatto uso del proprio diritto di voto. Questo dato va visto come un segnale chiaro del fatto che le immigrate desiderano esercitare il proprio diritto di avere un peso nella vita delle comunità locali in cui vivono. Dare loro il diritto di voto è il primo passo per creare condizioni che rendano possibile l’esercizio di una cittadinanza piena, compresa la rappresentanza negli organismi decisionali. Le donne che hanno partecipato al seminario hanno sottolineato con forza quanto fosse importante per loro il diritto ad essere se stesse e ad auto-rappresentarsi sulle questioni che le riguardano.

Le statistiche disponibili spesso riportano cifre molto basse sulla presenza delle donne immigrate nelle forze di lavoro. Questo basso tasso di attività viene spesso spiegato facendo riferimento a fattori culturali o religiosi. E’ certamente possibile che la cultura, la religione e la tradizione abbiano un peso, e vengano usate dagli uomini per un controllo sociale sulle donne, che comprende anche una limitazione del loro accesso all’istruzione e al lavoro retribuito. E’ anche vero, però, che le generalizzazioni su temi come la cultura e la religione portano a costruire immagini semplicistiche e stereotipi, che impediscono una comprensione delle forti diversificazioni esistenti all’interno di una stessa cultura o religione. (...)

Gli ostacoli creati dalla legge, i fattori strutturali relativi al mercato e all’offerta di lavoro, gli stereotipi negativi sull’immagine delle donne immigrate e le discriminazioni che esse subiscono in quanto immigrate, straniere, "altre", hanno un peso ben più significativo del contesto culturale da cui le donne provengono. In alcuni paesi in cui la legge consente il lavoro alle immigrate, e in cui esiste una forte offerta di lavoro dequalificato nell’industria, le immigrate che lavorano sono una percentuale molto alta. Il Rapporto dell’EC-Network riferisce che laddove le cittadine di un paese hanno un alto tasso di attività, anche fra le immigrate e le donne appartenenti a minoranze il tasso di attività in genere è alto, e a volte più alto delle autoctone. Ha un peso anche l’atteggiamento generale nei confronti del lavoro retribuito delle donne, poiché una sua accettazione generalizzata favorisce anche un aumento del tasso di attività delle immigrate. Purtuttavia, in un paese come la Gran Bretagna, ad esempio, fra le donne di origine pakistana o del Bangladesh si registra un tasso di attività inferiore a quello delle donne indiane, o delle altre donne in generale. Ciò potrebbe indicare il peso che hanno gli atteggiamenti tradizionali nei confronti del lavoro femminile; ma un fattore da tenere in considerazione può anche essere il livello di istruzione che si registra nei diversi gruppi. Inoltre la popolazione immigrata e le minoranze, sia donne che uomini, è colpita più di ogni altra dalla disoccupazione, dai licenziamenti, e dalla difficoltà di ottenere un posto di lavoro regolare.

Sia le donne immigrate al seguito dell’immigrazione maschile che quelle giunte autonomamente, spesso hanno accettato posti di lavoro dequalificati e cattive condizioni di lavoro. Molte si rendevano conto che l’offerta del mercato del lavoro era quella, e sono emigrate con l’obiettivo esplicito di fare quel tipo di lavoro, ma con l’intenzione di tornare a casa dopo un periodi di lavoro all’estero. Le donne delle zone rurali, soprattutto, prive di professionalità utilizzabili nell’industria e con una conoscenza nulla o scarsa della lingua, hanno incontrato delle barriere concrete alla possibilità di ottenere posti di lavoro migliori. Molti paesi, inoltre, non offrivano una formazione linguistica adeguata. Contrariamente alle intenzioni iniziali, molte donne hanno comunque deciso di rimanere definitivamente nel paese di immigrazione, ma molte sono rimaste bloccate in posti di lavoro dequalificati, prive di accesso alla formazione, di possibilità di progressione di carriera, o di altri modi per migliorare le proprie condizioni di lavoro. In ogni caso, anche se i dati disponibili sui livelli globali di istruzione sono insufficienti, i risultati di molte ricerche indicano che un numero significativo di immigrate presentano alti livelli di scolarità, e professionalità e qualifiche mai riconosciute nel paese di residenza, anzi di cui nessuno si è nemmeno mai interessato. Ciò fornisce ai datori di lavoro ed alle loro associazioni di categoria una scusa per negare le proprie responsabilità nella segreagazione delle donne in posti di lavoro dequalificati, con condizioni di lavoro di cattiva qualità.

Dai dati risulta che in generale i programmi formativi non rispondono alle esigenze delle donne immigrate. Si tratta di donne che spesso hanno bassi livelli di scolarità, o non hanno sufficiente padronanza della lingua, delle professionalità e delle conoscenze oggi richieste dal mercato. Si deve inoltre tener presente che molte donne non possono permettersi di partecipare ad un corso se le ore di studio non vengono retribuite; e che l’esistenza o meno di servizi per l’infanzia, o l’orario dei corsi, spesso sono fattori determinanti nel determinare la loro partecipazione ad un’esperienza formativa. In alcuni casi, prima della formazione necessaria ad accedere a posti di lavoro meno pesanti, possono essere necessari progetti di riabilitazione sanitaria, in quanto soprattutto le immigrate di prima generazione spesso soffrono delle conseguenze fisiche di lavori stressanti e monotoni, che ne hanno minato la salute. In tutti questi casi, è necessario un investimento di risorse che consenta la riqualificazione professionale, la formazione integrativa e la formazione permanente.

Per le immigrate irregolari, l’occupazione nel settore del lavoro domestico spesso significa non avere né contratto di lavoro né previdenza, ed essere costrette ad accettare orari di lavoro molto lunghi in cambio di salari inferiori ai minimi nazionali. Le lavoratrici domestiche che vivono presso le famiglie per le quali lavorano si trovano in condizioni di pesante controllo sulla loro vita, in quanto i loro documenti, compreso il passaporto, sono nelle mani dei datori di lavoro; non sono infrequenti i casi di violenza e abusi sessuali. In alcuni paesi, il diritto delle lavoratrici domestiche al permesso di lavoro e di soggiorno è vincolato al datore di lavoro che le ha assunte, o che le ha fatte entrare nel paese; ciò impedisce a queste donne di regolarizzare il proprio permesso di soggiorno e di lavoro. Le società europee che consentono questo tipo di lavoro vincolato, nei fatti legalizzano una forma estrema di controllo sociale ed oppressione delle donne.

Ciò risulta particolarmente vero nel caso delle donne cadute preda delle reti di trafficanti, le quali, spesso attraverso inganni e raggiri, sono poi costrette a prostituirsi. Si tratta di donne che si trovano in una situazione particolarmente vulnerabile. Il lavoro del Gruppo di Specialisti/e del Consiglio d’Europa sulla lotta alla prostituzione coatta e alla tratta delle donne (EG-S-TP) ha dimostrato che queste donne possono provenire da ogni parte del pianeta, ed ha registrato un incremento del fenomeno, in parte dovuto ai nuovi flussi di migrazione dall’Europa centro-orientale verso il resto del continente.

In situazioni di recessione economica ed alta disoccupazione, la popolazione immigrata può divenire il capro espiatorio di tutti i problemi. L’uso di etichette e la stigmatizzazione di queste persone sulla base di caratteristiche esteriori, o della diversità di norme e valori culturali, ha rappresentato un strumento potente di ghettizzazione e subordinazione sociale della popolazione immigrata e delle minoranze in Europa. Il potere di queste immagini negative si è rivelato particolarmente nocivo per le donne immigrate: ne è un esempio il mito dell’immigrata povera, sottomessa, poco istruita. Vedersi riflesse in questo tipo di immagini può minare l’auto-stima delle donne immigrate, il che a sua volta contribuisce a confermare l’atteggiamento dominante, secondo il quale le immigrate sono "un problema". La possibilità per le reti ed organizzazioni delle immigrate di accedere ai media è una delle proposte considerate una precondizione assolutamente necessaria per restituire visibilità alle donne migranti, e modificare gli stereotipi prevalenti nei loro confronti.

*Tratto da "Donne, migrazioni, diversità: l’Italia di oggi e di domani", atti del seminario 1 marzo 2001, in corso di pubblicazione a cura della Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità.