Migranti e native: la sfida del camminare insieme*



di Mercedes Lourdes Frías

Le associazioni di donne straniere residenti in Italia si sono riunite a Firenze nel mese di marzo 2000, per confrontarsi e delineare strategie politiche e operative miranti al riconoscimento dei diritti di cittadinanza e all’affermazione della soggettività individuale e collettiva delle donne immigrate. Si tratta di associazioni di donne immigrate di varia provenienza, oppure di associazioni di donne provenienti dallo stesso paese, o ancora di associazioni interculturali formate da donne straniere e italiane. L’obiettivo dell’incontro era quello di analizzare le dodici aree critiche enucleate nella Conferenza Onu sulle donne del 1995, nella prospettiva delle donne immigrate. Da questa discussione è uscito un documento propositivo in vista della Sessione speciale dell’Assemblea Generale delle Nazione Unite "Women 2000" ("Pechino + 5").

La necessità di produrre un documento a partire dallo specifico "immigrazione" nella discussione sulle difficoltà e le sfide che affrontano le donne a tutti i livelli si rende più evidente nel constatare l’assenza di riferimento alle problematiche derivate dalla condizione di immigrate che pure vengono quotidianamente affrontate da milioni di donne in tutto il mondo. Per citare soltanto un esempio, il luogo di lavoro, che per le donne in generale può essere un posto dove si subiscono molestie sessuali, per le donne immigrate può essere un luogo dove si "consumano" sistematici atti di vera e propria violenza sessuale. Nella Piattaforma di Pechino è presente un timido accenno alle donne migranti, ma senza alcun tipo di riconoscimento delle aggravanti che questo fattore porta con sé. Anche il documento ufficiale del governo italiano prodotto per "Pechino + 5" e quello delle organizzazioni non governative di donne riconoscevano solo in minima parte queste peculiarità.

Il documento che è scaturito da questa iniziativa parte dall’affermazione di due elementi che determinano la specificità della condizione di migrante nel contesto locale e internazionale:

Cause espulsive

Le cause che inducono all’emigrazione e le motivazioni individuali non vanno cercate solo negli aspetti legati all’impoverimento del Sud; l’eterogeneità delle caratteristiche dell’immigrazione femminile è l’aspetto più rilevante di questa realtà. Eterogeneità determinata dalla molteplicità della provenienza, estrazione sociale, livello di istruzione e motivazione della partenza.

I movimenti migratori si sono registrati in ogni epoca della storia dell’umanità, e le cause sono sempre state moltecipli. Ridurre i fattori che determinano le migrazioni odierne a spiegazioni prettamente economicistiche costituirebbe una visione "miserabilista" della realtà. Tuttavia, incrociando la lettura degli studi realizzati con/sulla popolazione immigrata in varie realtà territoriali a partire dalle motivazioni dichiarate dai migranti e dalle migranti, con l’analisi della distribuzione della ricchezza e dei consumi a livello mondiale, emerge con evidenza come le cause strutturali che presentano alla base elementi condizionanti d’origine economica abbiano il primato assoluto rispetto ad altri fattori.

Il documento delle associazioni delle donne immigrate parte proprio da questo presupposto: ´L'assetto economico mondiale, caratterizzato dall'enorme abisso fra paesi industrializzati e paesi con economia dipendente, delinea una fessura che tende ad accentuarsi dato il perpetuarsi di condizioni strutturali di disuguaglianza economica, commerciale, e dunque di potere politico. Ciò determina la persistenza e/o incremento di condizioni di miseria e povertà di milioni e milioni di donne e uomini, bambine e bambini del Sud che continuano a essere più colpiti dalla povertà diffusa e dalle sue conseguenze. I dati degli organismi internazionali indicano la portata e l'intensità con cui la fame, l'analfabetismo e la mancanza di accesso ai servizi, al credito e alla tecnologia rendono difficile l'esistenza e lo sviluppo di donne e bambine del Sud del mondo. Gli effetti delle misure per "combattere la povertà" sono risultati funzionali a mantenere le condizioni di disuguaglianza. L'indebitamento dei paesi impoveriti e i piani di aggiustamento strutturale hanno determinato un'emorragia di risorse finanziarie del Sud verso il Nord. Di fronte a questo quadro di "desesperanza", per milioni di persone l'esodo verso i luoghi dove la ricchezza si consuma è stata ed è l'unica alternativa. È dunque l'immigrazione una condizione derivata della povertà dei paesi del Sud del mondo. Noi donne del Sud, attraverso percorsi autonomi o a seguito di altri componenti della famiglia, siamo immigrate in quanto impoverite dall'ordine economico internazionaleª.

L’immigrazione femminile rappresenta il 46,8 per cento del totale a livello nazionale. In Toscana le donne immigrate costituiscono il 50,2 per cento. Durante gli ultimi cinque anni questo dato ha registrato un calo del 2 per cento dovuto principalmente all’aumento degli uomini, chiamati attraverso il ricongiungimento familiare, e all’incremento dell’immigrazione albanese costituita in maggioranza da uomini e adolescenti maschi.

Secondo i dati della ricerca-azione sull’immigrazione femminile a cura della Regione Toscana, il 71,5 per cento delle immigrate proviene dalle aree urbane dei paesi del Sud. Si tratta nella maggior parte dei casi di donne che costituiscono la seconda generazione di immigrati/e dalle campagne in città del loro paese d’origine.

In molti paesi, in particolare in Asia e America Latina, a partire degli anni ’50 si è registrato un intenso flusso migratorio dalle zone rurali verso quelle urbane, che ha comportato un enorme incremento della popolazione urbana durante gli ultimi 30 anni. Le cause di questi movimenti sono da attribuire ai fallimenti delle politiche agrarie. L’espansione delle colture di piantagione, destinate all’esportazione verso i paesi del Nord, ha significato la scomparsa dell’economia di sussistenza in molti paesi, fonte principale di sopravvivenza della popolazione rurale. Inoltre, le incongruenze insite nei progetti di riforma agraria, hanno portato a un ulteriore impoverimento. Dunque i movimenti migratori interni nei paesi del terzo mondo nascono come conseguenza dell’applicazione di politiche periferiche mirate a mantenere un certo "equilibrio" nel contesto internazionale.

Questi enormi ondate di persone che lasciavano la campagna moribonda si sono riversate e radicate nelle periferie delle città, occupando gli spazi di frontiera delle aree urbane. Si sono così venuti costituendo dei quartieri marginalizzati dal punto di vista urbanistico, con il crescente sviluppo di manodopera informale, e con la diffusione di sottoculture prodotto dal trasferimento in città di usi e costumi rurali.

Le donne che lasciavano la campagna si sono inserite nel mondo del lavoro cittadino attraverso il servizio domestico, impiegandosi presso le famiglie con reddito medio. Questa attività coinvolge anche un numero rilevante di bambine, che molto spesso vengono portate a lavorare insieme alle madri, oppure occupate come collaboratrici domestiche fisse in cambio di vitto, alloggio e della possibilità di seguire studi serali. Molte altre donne alternano invece i lavori domestici a pagamento con delle attività di commercio informale sia ambulante che a domicilio.

Le misure economiche imposte dai piani di aggiustamento strutturale del Fondo monetario internazionale durante la prima metà degli anni ’80 hanno avuto rilevanti conseguenze sulle fasce di popolazione socialmente più vulnerabili e hanno portato a un impoverimento ancora più acuto, contribuendo in modo sostanziale a determinare i nuovi movimenti migratori, in questo caso verso i paesi industrializzati.

Questa volta il movimento migratorio ha interessato le figlie delle/dei migranti degli anni ’50 e ’60. Si sono messe in viaggio le ragazze che sono cresciute nella sottocultura suburbana, che hanno fatto lavoro domestico e hanno studiato, così come le donne che hanno esercitato il piccolo commercio e hanno partecipato alle organizzazioni di quartiere. Mi riferisco soprattutto a donne che hanno intrapreso percorsi migratori autonomi, ossia che non sono partite al seguito di mariti o conviventi, e per le quali l’emigrazione è la risposta a una mancanza di prospettive, una ricerca di nuove strade di autorealizzazione e di una possibile fonte di sostentamento per la famiglia "allargata".

Queste caratteristiche ci permettono di spiegare a grandi linee i percorsi migratori di una rilevante percentuale di donne immigrate provenienti dal Sud, ma non sono sufficienti a farci comprendere la complessità delle motivazioni, delle condizioni di vita prima della partenza, dei progetti migratori.

Il viaggio e le strategie di radicamento

L’emigrazione non rientra nei sogni da bambina delle donne immigrate. Si sogna e si progettano gli studi, la carriera, la famiglia. Nei sogni i viaggi sono di studio o di piacere. I sogni spesso s’infrangono e i progetti non possono essere portati a compimento; allora si riprogetta, dunque il viaggio diventa la via per cercare di realizzare quei sogni, o la parte che resta o semplicemente per sopravvivere.

Si arriva al Nord o all’Occidente economico con un bagaglio di progetti, ma anche di esperienze di vita e lavoro, con competenze tecniche, scientifiche, sociali; con saperi che diventano poco spendibili nella società di arrivo sia per protezionismo nei confronti dei nazionali, sia per l’ermetismo dell’organizzazione sociale. Il lavoro, quasi sempre, quasi per sempre, per quasi tutte, è il lavoro domestico. Sembra un destino. Tutto il contenuto del bagaglio va custodito in un posto dove non ingombri, finché gente di buon cuore pensi a dare una mano, con tanto di finanziamenti europei, a quelle donne così brave e preparate che stanno sprecando le loro risorse, e così le aiutano a diventare imprenditrici, aiutandole a costruire delle cooperative di pulizie o di assistenza agli anziani.

Indubbiamente il lavoro domestico e il lavoro di cura, specie se fisso ventiquattro ore su ventiquattro, genera reddito, fa sì che si possano concretizzare dei progetti legati alla sfera della sopravvivenza o poco più; ma il costo è sicuramente elevatissimo. Lavorare fisso presso una famiglia comporta delle privazioni sostanziali, perdita di spazio fisico, psicologico ed emotivo, limitazioni radicali della libertà personale; spesso si passa da un ruolo attivo, riconosciuto, propulsore nella propria famiglia, a un ruolo di subordinazione che implica automaticamente la negazione di una parte di sé.

Diventa lavoro quello che a casa era parte dei "compiti" delle donne, come accudire gli anziani, e questo necessita un minimo di investimento non soltanto professionale per svolgere in maniera retribuita un’attività che nella propria esperienza appartiene alla sfera affettiva. Le strategie sono varie: ci si affeziona alla persona in cura facendo finta magari di assistere un familiare o un parente stretto; si prova a fare il proprio lavoro in modo distaccato, impresa assai difficile trattandosi di persone; oppure ci si colloca in una posizione di eterna transitorietà, assumendo il lavoro come un passaggio, una parentesi in prospettiva di qualcosa migliore.

Nonostante il 33 per cento delle donne immigrante residente in Toscana possieda un titolo di scuola superiore, la maggioranza di queste donne lavora come colf, o comunque in attività di servizio domestico di vario genere: pulizie familiari a ore, cooperativa di pulizie, di servizio alla persone, o collaboratrice domestica fissa.

Dalle "comunità" all’associazionismo interculturale

Le donne sono le protagoniste di una nuova forma di associazionismo degli immigrati e delle immigrate: si tratta dell’evoluzione delle organizzazioni basate sulla provenienza.

Fin dagli anni settanta, quando comincia a prendere consistenza numerica l’immigrazione di donne provenienti da Eritrea, Filippine, Capo Verde per motivi di lavoro, esistevano forme di autorganizzazione informali connotate come occasioni di ritrovo, condivisione dell’esperienza migratoria e scambio di informazioni fra donne e uomini appartenenti allo stesso paese. A partire da queste esperienze si è affermato il concetto di "comunità" in riferimento alle aggregazioni dei cittadini e delle cittadine provenienti dai paesi in via di sviluppo.

Questo concetto presuppone l’esistenza di gruppi compatti, formati da persone, con caratteristiche omogenee e con un forte grado di coesione interna. La nozione stessa di comunità, riferita alle organizzazioni di stranieri, viene automaticamente associata all’idea di "primitivo" (naturale, originale), concetti collegati all’idea di tribale, etnico, che per molti caratterizza le persone provenienti da determinate aree del mondo, termine che per altro non viene utilizzato per denominare le organizzazioni di stranieri provenienti dai paesi industrializzati.

L’altro aspetto da mettere in discussione è l’idea di omogeneità dei componenti delle cosiddette comunità. Al di là delle difficilmente individuabili caratteristiche comuni che possono avere persone provenienti della stessa nazione, sono da considerare le differenze date dai diversi ceti sociali d’appartenenza, dai diversi livelli d’istruzione e soprattutto dai diversi percorsi di vita e progetti migratori.

La quasi totalità delle organizzazioni di immigrati e immigrate su base nazionale si autodenomina associazione, il che implica una forte enfasi sull’orientamento verso "fuori" dal proprio nucleo. Oltre gli scopi corporativi basati sui legami di provenienza di tale aggregazioni, le associazione prevedono infatti azioni volte a favorire una migliore interazione con la società ospitante, anche attraverso la partecipazione. Tuttavia, malgrado i buoni propositi, le associazioni su base nazionale raramente svolgono attività che superino le feste e celebrazioni anche in occasioni di ricorrenze nazionali. Poche fra esse realizzano in maniera più o meno sistematica attività di rilievo culturale e sociale, come mostre e concerti con artisti nazionali, attività di assistenza, o mediazione sociale e politica rivolta ai propri connazionali, piccoli progetti editoriali e attività interculturali nelle scuole.

Alcune associazioni e Ong italiane hanno fornito le basi materiali per la nascita e il consolidamento di esperienze di autorganizzazione degli immigrati e le immigrate, azione fondamentale per lo sviluppo di forme di aggregazione che portano all’affermazione della soggettività collettiva dei cittadini e delle cittadine stranieri. Ciononostante, è presente un grosso "bussines" dell’intercultura. Molte associazioni e Ong si sono specializzate in lavoro per/sugli immigrati e le immigrate. Proliferano i corsi di formazione, senza qualifica, rivolti a stranieri e straniere, ci sono corsi di ogni tipo e sulle più svariate materie, e soprattutto un enorme giro di finanziamenti europei per queste iniziative. Si sono anche create le "parrocchie", associazioni create per progetti specifici, associazioni di immigrati e immigrate come appendici di altre associazioni nazionali.

La vera evoluzione dell’associazionismo degli immigrati e delle donne in generale è costituita dalla nascita e dal rafforzamento delle associazioni interculturali delle donne, che si è registrata negli ultimi anni. Superando la discriminante provenienza comune, si è identificato nell’asse di genere e nella molteplicità di esperienze e vissuto, derivate dalla eterogeneità di caratteristiche delle migranti, il complesso sistema di intrecci a partire dal quale lavorare.

Dunque, l’associazionismo interculturale diventa una strategia politica delle donne. Per le donne immigrate questo significa, partendo dal comune denominatore di genere, mettere insieme le mille diversità che le caratterizzano, per affrontare collettivamente le sfide, le difficoltà, le possibilità ancora una volta comuni strutturalmente, in cerca della riappropriazione dei sogni e della realizzazione dei progetti individuali, familiari e di gruppo. Per le donne italiane vuol dire riconoscere nelle migranti una soggettività femminile diversa e portatrice di ulteriori risorse, bisogni e caratteristiche che le rendono suscettibili di emarginazione, o già marginalizzate anche alla luce delle conquiste delle donne native.

L’assenza di riconoscimento dei diritti delle donne immigrate può dunque essere un riflesso della vulnerabilità degli spazi recuperati dalle donne italiane, attraverso lunghe battaglie per i diritti nelle diverse sfere della vita sociale, economica, individuale e culturale. Conquiste sostanziali a volte rimaste sulla carta, non trasformate in un agire coerente, ma comunque espressione del riconoscimento della soggettività femminile.

Le associazioni interculturali delle donne sono le più attive e produttive fra le aggregazioni in cui la componente provenienza è rilevante: sono spazi di condivisione di esperienze, elaborazione politica, scambi culturali, progettazione. Ma costituiscono anche scenari di forti conflitti determinati dall’eterogeneità delle sue componenti e dalle diverse collocazioni politiche, sociali ed economiche. Conflitti che talvolta finiscono col frenare la crescita di tali associazioni o addirittura determinarne la fine. Il non riconoscimento e la mancata assunzione di queste differenze sono particolarmente evidenti in sede di progettazione. Si verifica spesso che le donne che non hanno problemi di sopravvivenza siano restie a promuovere o sviluppare iniziative che implichino la produzione di reddito attraverso attività alternative al lavoro domestico. In generale si condivide il principio, ma prevale in questo caso l’aspetto politico in senso teorico, espropriandolo dal lato pratico, che dovrebbe scaturire da una prassi coerente con le dichiarazioni. Si può rilevare anche il caso contrario: alcune donne che, attirate dall’associazione per aver individuato in essa l’occasione di emergere dal buio delle attività lavorative di basso profilo rispetto alle proprie aspirazioni e competenze, non partecipano o partecipano scarsamente alle iniziative che non hanno riscontro materiale immediato.

Queste associazioni, oltre a essere spazio di incontro, svolgono attività che vanno dai servizi di orientamento e accompagnamento all’uso dei servizi pubblici rivolti alle donne, ad attività di sostegno linguistico e culturale per i ragazzi e le ragazze stranieri inserite nelle scuole dell’obbligo, fino a percorsi di educazione interculturale e antirazzismo con intere classi delle scuole elementari, medie inferiori e medie superiori. Alcune di queste associazioni hanno dato vita alla nascita di attività imprenditoriali nel campo della ristorazione e della sartoria. In Toscana sono cinque le associazioni con queste caratteristiche, tre le imprese che sono nate dal loro interno, e altre associazioni sono attualmente in gestazione. Il contesto di sviluppo di queste iniziative è stato fornito dalla ricerca-azione dell’assessorato alle Politiche sociali della Regione Toscana, in collaborazione con il Cospe e la Commissione regionale per le pari opportunità, sulla condizione delle donne immigrate in Toscana. Questa ricerca ha consentito la messa a confronto dell’esistente rispetto all’associazionismo delle donne immigrate ed è servita come elemento catalizzatore della nascita di altre esperienze di organizzazione delle donne.

Esiste una sostanziale differenza di oggetto progettuale e di prospettive fra le associazioni nate a partire dall’incontro, anche informale, di donne che si riconoscono in certe pratiche e visioni politiche, e le associazioni nate da processi esogeni, ossia a partire da corsi di formazione rivolti alle donne o agli immigrati, o prodotto di processi che partono da istituzioni e organizzazioni che lavorano nel campo dell’immigrazione.

L’immaginario collettivo attribuisce alle donne immigrate gli stereotipi derivati dalla visibilità estrema o dalla loro totale invisibilità, dunque prostituta o serva, con tutto quello che ne consegue, con tutta la carica negativa che viene data a queste categorie. In seguito al prevalere di questa immagine, che tende a imporsi a tutti i livelli, da quello istituzionale a quello dei rapporti personali, la soggettività collettiva delle donne immigrate stenta ad affermarsi.

Donne immigrate fra sessismo e razzismo

Il secondo concetto del preambolo del documento delle associazioni di donne immigrate residenti in Italia afferma, come chiave di lettura e analisi dello specifico della condizione di migrante nel discorso sulla trasversalità della prospettiva di genere: ´Alle disparità di opportunità basate sulla differenza di genere, per noi donne immigrate si aggiungono altre diversità, che in una categorizzazione verticistica comportano degli ulteriori elementi di asimmetria. L'essere migranti, provenienti dai paesi del Sud del mondo o dall'Est europeo, l'essere nere o appartenenti a un contesto culturale e/o religioso non assimilabile al modello eurocentrico, rappresenta per noi un grosso ostacolo all'esercizio dei diritti, alla nostra soggettività e alle possibilità di interloquire in modo paritario con i diversi settori della societàª.

Le donne immigrate sono soggette alla discriminazione plurima, e dunque caratteristiche come la provenienza, i caratteri somatici o l’appartenenza religiosa non sono soltanto un’aggravante da aggiungere allo svantaggio derivato dal valore sociale e culturale attribuito alla differenza di genere nelle società patriarcali. In un’ipotetica società omogenea dal punto di vista etnico, linguistico, economico e culturale, la differenza primaria e fondamentale sarebbe quella di genere. Tuttavia nella realtà, tali società non esistono, ci sono dunque caratteristiche che determinano un maggiore grado di vulnerabilità rispetto al riconoscimento e all’esercizio dei diritti, che sono già in atto prima di arrivare alla differenza di genere: per esempio, essere neri, albanesi, musulmani, stranieri provenienti dai paesi impoveriti, qui ed oggi, è una causa di discriminazione e alienazione dei diritti fondamentali della persona ancora di più forte dell’essere uomini o donne. Se si è nere, rumene, musulmane o straniere dei paesi impoveriti, la vulnerabilità è ancora più accentuata.

Come afferma bell hooks ´È soltanto se si immagina la donna in astratto, facendone un’invenzione o una fantasia, che la razza può non essere considerata importanteª. E rispetto all’identificazione del soggetto donna si domanda: ´Dobbiamo veramente credere che le teoriche femministe che non scrivono d’altro che delle immagini delle donne bianche, che sussumono questo specifico soggetto storico sotto la categoria totalizzante di "donna", non "vedano" che l’immagine è bianca?ª. La domanda è volutamente retorica, il "soggetto" non è soltanto maschio, ma anche bianco. Dunque la sola considerazione della dimensione di genere non basta. In questo senso, come sostiene Liana Borghi, la teoria del posizionamento di genere parte da una prospettiva più complessa, ossia enfatizza il riconoscimento delle differenze fra donne, specie quelle razziali ed economiche, che generalmente vengono cancellate dal concetto femminista di sorellanza.

La teoria del posizionamento ci consente di contestualizzare il discorso sulle variabili che determinano l’emarginazione. Fermo restando che occorre appellarsi a una molteciplicità di condizioni che determinano lo svantaggio sistematico, in contesti diversi il peso di ognuno di questi fattori può essere decisamente diverso. In certi contesti essere migranti può essere più determinante nei meccanismi di esclusione sociale, economica e culturale di quanto lo siano le caratteristiche legate al genere e alla razza; esempio essere "hispana" negli Stati Uniti, a un valore che implica ancora minore riconoscimento e maggiore vulnerabilità anche rispetto alle donne nere cittadine statunitensi. Esiste una disparità di opportunità basata sul genere fra i cittadini e le cittadine bianchi di origine europea appartenenti alla "cittadella". Le donne, in Italia come nella maggior parte dei paesi, nonostante siano garantite nell’esercizio dei diritti nella stessa misura degli uomini, grazie al possesso della cittadinanza formale, nella realtà faticano molto per conquistare spazi sociali, economici, politici e culturali che consentano loro parità di diritto e di partecipazione nelle istanze decisionali, nel riconoscimento del loro specifico di donne. Tuttavia il possesso della cittadinanza colloca i cittadini e le cittadine nel loro insieme in una posizione che garantisce maggiore tutela dei loro diritti. Dunque il possesso o la mancanza della cittadinanza basata sull’appartenenza allo stato nazionale è, prima dell’appartenenza di genere, una condizione che determina inclusione o esclusione sociale. Rispetto al riconoscimento e all’esercizio dei diritti di cittadinanza, un uomo nero o povero o proveniente del Sud è più vulnerabile di una donna, italiana, bianca.

I meccanismi che determinano il sessismo sono in linea generale gli stessi che sostentano il razzismo: valorizzare le differenze di genere, fenotipiche o religiose; stabilire delle categorie, e collocare queste differenze in ordine verticistico. Il maschio in cima nella scala di genere; il bianco in cima nella scala "etnica"; il cristiano in vetta alle religioni, ecc. Nei paesi industrializzati dell’Europa e del Nord America, il razzismo è il vero scoglio da superare. Mentre le lotte delle donne, anche se dietro dure battaglie, trovano spazio a livello legislativo, la voce delle minoranze rimane inascoltata a tutti i livelli, e le loro lotte non ottengono che scarsi risultati.

È evidente che per combattere il sessismo non bastano le leggi in favore delle richieste delle donne; ci vuole uno sforzo mirato alla trasformazione culturale perché il sessismo è imparato, si assumono ruoli sociali già determinati. Occorre lavorare su più fronti. La scuola è senza dubbio uno spazio privilegiato per mettere le basi per le trasformazioni di mentalità necessarie ad alterare l’equilibrio stabilito. La revisione e modifica dei libri di testo, la realizzazione di iniziative mirate, ma soprattutto la "vigilanza" costante sia dei metodi che dei contenuti di ogni materia e della natura delle responsabilità attribuite a bambine e bambini.

Per superare il razzismo lo sforzo deve essere triplice: a livello istituzionale va rispettato il principio di uguaglianza davanti alla legge e vanno adottate le conseguenti misure in materia di diritti e di lotta alla discriminazione. A livello culturale, occorre rivedere la storia, collocando colonialismo, etnocentrismo e neocolonialismo al centro dell’analisi del razzismo, dello squilibrio economico internazionale, della povertà. Nei libri di testo, intrisi di immagini che creano e rafforzano stereotipi e pregiudizi sugli altri, e nell’insegnamento di tutte le materie, giacche nessuna è neutrale, va riequilibrato lo spazio dei paesi del Sud rispetto a quelli del Nord economico in tutti i programmi scolastici. L’educazione interculturale, infine, deve essere basata sull’analisi degli elementi di razzismo imparati da diverse fonti, non sui racconti delle favole e sui balli dei paesi lontani.

La decisione di intraprendere una strada comune, di associarsi tra donne immigrate e donne italiane, parte dell’esperienza stessa di essere donne in ogni società. Che significa per tutte dover lottare, con strumenti sicuramente diversi, per il riconoscimento dei propri diritti di persona e di partecipazione piena nelle diverse sfere della società senza negare parti di sé. I legami e le esperienze che hanno in comune e che hanno deciso di mettere insieme e di valorizzare non le fa tuttavia uguali. Non godono degli stessi diritti né delle stesse opportunità, dunque anche le priorità e le prospettive sono diverse. Come sostiene bell hooks, ´nella stessa tensione omologante che vorrebbe fare di ogni donna l’alleata naturale di un’altra donna, c’è un vizio logico e concettuale. Non solo le donne non sono uguali tra loro, ma appiattirle a quel unico comune denominatore che a esse verrebbe dal condividere il giogo sessista, significa letteralmente ridurle al silenzio, cancellarle, teorizzarle piuttosto che conoscerleª. Lavorare insieme in modo proficuo implica il riconoscimento delle disparità sociali ed economiche esistenti senza che questo ancora una volta acquisisca un valore.

Firenze, settembre 2000

 

*Tratto da "Donne, migrazioni, diversità: l’Italia di oggi e di domani", atti del seminario 1 marzo 2001, in corso di pubblicazione a cura della Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità.