Identità di razza e identità di genere: critica dell'essenzialismo femminista

di Angela P. Harris1*

Legge e Letteratura
La Legge non è stata spesso tentata dal suono della voce. Gli avvocati sono tutti troppo consapevoli che il linguaggio legale non è un gioco puramente autoreferenziale, dal momento che «gli atti legali interpretativi segnalano e cagionano l'imposizione della violenza sugli altri».2 Nella loro preoccupazione di evitare l'irresponsabilità sociale e morale della prima voce, i teorici del diritto hanno virato nella direzione opposta, verso la sicurezza della seconda voce, che parla da una posizione di oggettività piuttosto che di soggettività, neutralità, piuttosto che di pregiudizio. La voce, come voce di noi il popolo è, alla fin fine, autoritaria e coercitiva nel suo tentativo di parlare per tutti.
Sia nella legge che nella letteratura vi sono teorici che lottano contro le tendenze della loro disciplina. Teorici letterari, come Henri Lois Gates Jr, Gayatri Spivak, e Abdul JanMohamed, tentano di «leggere testi specifici, verbali e visuali contro i complessi codici culturali di potere, dominazione e affermazione che questi testi riflettono e rinforzano».3 Teorici del diritto come Mari Matsuda, Pat Williams e Derrick Bell giustappongono la voce che «permette ai teorici di discutere della libertà, della proprietà e dei diritti come aspirazioni del liberalismo, senza connessione a ciò che questi concetti significano nella vita reale della gente»,4 con la voce della gente, [le persone] le cui voci vengono raramente ascoltate dalla legge. Né nel diritto né nella letteratura comunque lo scopo è quello di rimpiazzare una voce con il suo opposto. Piuttosto, è quello di concepire sia il discorso giuridico che quello letterario come una lotta complessa, e come un dialogo infinito tra queste voci.
La metafora della voce implica un soggetto che parla. Voglio suggerire comunque che entrambe le voci descritte provengono dalla stessa fonte, una fonte che io definisco coscienza multipla. Una premessa di questo articolo è che non si nasce con un sé, ma che noi siamo piuttosto composti di un tumulto di sé parziali, talvolta contraddittori o perfino antitetici. Un'identità unificata, ammesso che esista, è il prodotto della volontà, non un destino comune o un diritto di nascita. Perciò la coscienza non è «mai fissata, mai raggiunta una volta per tutte»,5 non è il risultato finale di un dato biologico iniziale, ma un processo, una costante e contraddittoria condizione del divenire in cui sono profondamente implicate sia le istituzioni sociali che le volontà individuali. Una coscienza multipla ospita sia la prima che la seconda voce, nonché tutte le voci nel mezzo.
Usare il termine coscienza multipla così come è riflesso nel discorso giuridico o letterario non è risolutivo, né rappresenta un equilibrio tra i due estremi, ma è piuttosto un processo in cui le proposizioni vengono costantemente avanzate, sfidate e sovvertite. Cynthia Ozick argomenta che «una letteratura che redime, una letteratura che interpreta e decodifica il mondo, prodotta per il bene dell'umanità, deve lottare con il suo proprio corpo, con la sua carne e il suo sangue».6 Similmente Mari Matsuda, mentre afferma che «nel campo del diritto, attenersi a una coscienza multipla ci consente di operare all'interno delle astrazioni del discorso standard della giurisprudenza, e all'interno dei dettagli della nostra conoscenza particolare»,7 ci rivela anche che «questo alternarsi costante della coscienza produce a volte pazzia, a volte genio, a volte entrambi».8


Teoria giuridica femminista

Come femminista nera e lesbica, che si sente a proprio agio con i diversi ingredienti della sua identità, e come donna impegnata nella lotta per la libertà sessuale e razziale dall'oppressione, mi ritrovo a essere costantemente incoraggiata a isolare un aspetto di me stessa e presentarlo come un intero significativo, eclissando o negando le altre parti di me.9

Audre Lorde


Il bisogno di una coscienza multipla nel movimento femminista un movimento sociale che comprende sia la legge che la letteratura e tutto ciò che c'è nel mezzo è evidente da lungo tempo. Sin dall'inizio del movimento femminista negli Stati Uniti le donne nere hanno sostenuto che la loro esperienza pone il problema della nozione di una esperienza unitaria delle donne. Nella prima ondata del movimento femminista, la realizzazione da parte delle donne nere che le leader bianche del movimento per il suffragio non intendevano prendere seriamente in considerazione né la questione dell'oppressione razziale, né le donne nere in se stesse, è stato il motivo per cui non si sono create alleanze politiche tra donne nere e bianche nel movimento. Nella seconda ondata le donne nere stanno di nuovo parlando, persistentemente e a voce alta, e a molti livelli le nostre voci cominciano a essere ascoltate. Le femministe hanno adottato la nozione di coscienza multipla come appropriata a descrivere un mondo in cui la gente non è oppressa solo o soprattutto sulla base del genere, ma anche in base alla razza, la classe, l'orientamento sessuale e altre categorie ancora, in un'inestricabile ragnatela. Inoltre il concetto di coscienza multipla è implicito nei precetti del femminismo stesso. Per usare le parole di Christine Littleton «il metodo femminista comincia con l'atto davvero radicale di prendere seriamente le donne, credere che ciò che diciamo di noi stesse e della nostra esperienza è valido e importante, perfino quando (o forse specialmente quando) ha un rapporto scarso o inesistente con quanto viene detto su di noi».10 Se si dovesse distillare una esperienza delle donne, o un femminismo unitario, le femministe dovrebbero ignorare molte voci di donne.
Nella teoria giuridica femminista, comunque, lo spostamento da teorie univoche a quelle multivocali sul femminismo e l'esperienza delle donne, è stato più lento che in altre aree. Nella teoria giuridica femminista la spinta della seconda voce, la voce della categorizzazione astratta, è ancora forte e potente: sembra che noi il popolo corra il pericolo di venir rimpiazzato da noi le donne. E nella teoria del diritto femminista, così come nella cultura dominante, è soprattutto gente bianca, eterosessuale e privilegiata sul piano economico, a chiedere di parlare per tutti noi. Non sorprende che per le donne nere, la storia che loro raccontano sulle donne, nonostante le sue pretese di universalità, sembra interessare soprattutto donne bianche, eterosessuali e privilegiate economicamente un fenomeno che Adrienne Rich chiama «solipsismo bianco».11
In questo saggio mi riferisco all'essenzialismo di genere in rapporto alla nozione che esiste un'esperienza monolitica delle donne che può essere descritta a prescindere da altri aspetti, come la razza, la classe e l'orientamento sessuale. Un corollario dell'essenzialismo di genere è l'essenzialismo di razza la convinzione che ci sia una monolitica esperienza nera, o esperienza chicana. La fonte dell'essenzialismo di genere e di razza (e di tutti gli altri essenzialismi, perché potremmo moltiplicare all'infinito la lista delle categorie) è la seconda voce, la voce che pretende di parlare per tutti. Il risultato dell'essenzialismo è di ridurre la vita della gente soggetta a molte forme di oppressione, a un problema di somma aritmetica: razzismo + sessismo = l'esperienza delle donne nere; oppure razzismo + sessismo + omofobia = l'esperienza delle lesbiche nere. Così, in un mondo essenzialista, l'esperienza delle donne nere sarà sempre forzatamente frammentata prima di essere soggetta a un'analisi, dal momento che quelli che sono solo interessati alla razza, e quelli che sono solo interessati alla differenza di genere si prendono le loro fette separate dalle nostre vite.
Perché, indipendentemente dalle sfide che vengono da donne diverse e dal metodo femminista stesso, l'essenzialismo femminista è così persistente e invasivo? Penso che le ragioni siano diverse. L'essenzialismo è intellettualmente conveniente e, fino a un certo grado, cognitivamente radicato. L'essenzialismo inoltre porta con sé importanti vantaggi emotivi e politici. Inoltre l'essenzialismo appare spesso (soprattutto alle donne bianche) come l'unica alternativa al caos, al pluralismo indiscriminato (la trappola di Funes), e alla fine del movimento femminista. Secondo me, invece, finché le femministe, come teoriche all'interno della cultura dominante, continuano a cercare l'essenza razziale e di genere, le donne nere non saranno altro che un incrocio tra due diversi tipi di dominio, o poste al fondo della gerarchia di oppressioni; ci verrà sempre chiesto di scegliere pezzi di noi stesse da presentare come l'intero.
Così, nell'esperienza dello stupro subito dalle donne nere c'è non solo una vulnerabilità alla violenza e una mancanza di protezione legale radicalmente diverse da quelle delle donne bianche, ma anche un'ambivalenza eccezionale. Le donne nere si sono rese conto simultaneamente della loro vittimizzazione e di quella degli uomini neri da parte di un sistema che ha costantemente ignorato la violenza contro le donne mentre la perpetrava contro gli uomini.


Al di là dell'essenzialismo: donne nere e teoria femminista


La nostra futura sopravvivenza dipende dalla capacità di metterci in relazione all'interno della parità. Come donne, dobbiamo liberarci di modelli di oppressione introiettati, se dobbiamo superare gli aspetti più superficiali del cambiamento sociale. Ora dobbiamo riconoscere le differenze tra donne che sono nostre eguali, né inferiori né superiori, e trovare i modi di usare le differenze per arricchire la nostra visione e la nostra lotta unita.12

Audre Lorde


In questa parte dell'articolo voglio parlare dei contributi che le donne nere possono dare alla teoria femminista per aiutarci a superare l'essenzialismo e per raggiungere la coscienza multipla nel metodo sia del femminismo che della giurisprudenza. Secondo me ci sono almeno tre principali contributi che le donne nere possono offrire alla teoria femminista post essenzialista: il riconoscimento che il sé è molteplice e non unitario; il riconoscimento che le differenze sono sempre relazionali piuttosto che inerenti; e il riconoscimento che l'integrità e la comunione sono atti di volontà e creatività, piuttosto che scoperte passive.


L'abbandono dell'innocenza
Le donne nere non fanno esperienza di un singolo, intimo sé (e tanto meno di un sé che sia essenzialmente di genere), ma di molti sé. Questo senso di un sé molteplice non appartiene solo alle donne nere, ma le donne nere lo hanno espresso in modo forte, acuto e potenzialmente utile alla teoria femminista. Bell Hooks descrive l'esperienza fatta durante un corso di scrittura creativa in un college a maggioranza bianca, dove veniva incoraggiata a trovare la sua voce, in un modo frustrante per il suo senso di molteplicità: «Sembrava che molti studenti neri avessero dei problemi con questa situazione, proprio per via del senso di sé, e per il fatto che, per definizione, la nostra voce non era unilaterale, monologa, o statica, ma piuttosto multidimensionale. Parlavamo il dialetto come l'inglese standard. Le persone che parlano un'altra lingua oltre all'inglese, che parlano il patois come l'inglese, ritengono che un aspetto necessario dell'auto affermazione sia di non essere obbligati a scegliere una voce rispetto all'altra, di non dover rivendicarne una come più autentica, ma piuttosto di poter costruire realtà sociali che celebrano, ammettono e affermano le differenze, la varietà».13
Questa esperienza di molteplicità è anche un senso di contraddizione di sé, di contenere l'oppressore dentro se stessi. Nel suo articolo Sull'essere l'oggetto di proprietà14 Patricia Williams parla di se stessa mentre scrive sulla sua bisnonna «pescando attraverso le rovine delle mie radici».15 Ciò che trova è un paradosso: lei deve rivendicare per se stessa «un'eredità la genesi del cui ordito è il suo essere una diseredata».16 La trisnonna di Williams, Sophie, era una schiava, ingravidata all'età di undici anni dal suo padrone, un avvocato bianco che si chiamava Austin Miller. La loro figlia Mary, la bisnonna di Williams, fu strappata a Sophie e cresciuta come serva domestica.
Quando Williams entrò alla scuola di legge, sua madre le disse «I Miller erano avvocati, si vede che ce l'hai nel sangue».17 Per Williams questa affermazione le chiede di ammettere i suoi sé contraddittori: «Lei intendeva dire che nessuno dovrebbe farmi sentire inferiore perché ha un padre giudice. Lei voleva che io reclamassi quella parte della mia eredità dalla quale ero stata diseredata, e voleva che la usassi come fonte di forza e sicurezza in me stessa. Nello stesso tempo lei mi stava chiedendo di rivendicare una parte di me stessa che era stata spogliata di un'altra parte di me stessa:mi stava chiedendo di negare quella piccola ragazza nera non affrancata dentro me stessa, che si sentiva impotente, vulnerabile e che, soprattutto, si sentiva così per giusti motivi».18
La teoria sulla schiavitù dei neri, nota Williams, si basava sulla nozione che i neri erano esseri senza volontà o personalità, caratterizzati da «irrazionalità, mancanza di controllo e bruttezza». In contrasto, «saggezza, controllo e bellezza estetica definivano l'intera personalità bianca nella stessa legge degli schiavi». Nell'accettare la se stessa bianca, la se stessa avvocato, Williams deve accettare un legato che non solo la disereda, ma è una negazione del suo sé nero: per i Miller, suoi antenati, gli Williams, anch'essi suoi antenati, non disponevano proprio di un sé.
La scelta di Williams alla fine non è di negare uno dei suoi sé, ma di riconoscerli entrambi, e nel far questo, di ammettere la colpa come l'innocenza. Lei conclude l'articolo citando la «presenza di orsi polari»:19 orsi che uccisero un bambino allo zoo di Brooklyn e furono per questo uccisi, orsi giudicati in un dibattito pubblico come «innocenti, territoriali per natura, ingiustamente imprigionati e colpevoli».20
Questa complessa decisione rifiuta l'innocenza facile del supporre se stessi come un sé essenzialmente nero, con una eredità di oppressione da parte dell'Altro, colpevole, bianco. È con questo genere di analisi stratificata che le donne nere possono contribuire alla teoria femminista, con le loro storie di com'è l'avere sé contraddittori e multipli, sé che contengono sia l'oppresso che l'oppressore.


Integrità come volontà e idea

Dal momento che ciascuno aveva scoperto anni prima che non erano né bianchi né maschi, e che tutta la libertà e il trionfo erano loro negati, si erano organizzati per creare qualcun altro da essere.21

Toni Morrison


Finalmente le donne nere possono aiutare il movimento femminista a superare la sua fascinazione per l'essenzialismo, attraverso il riconoscimento che l'interezza del sé e la comunanza con altri si affermano (se mai si raggiungono completamente) attraverso l'azione creativa, e non si realizzano nel condividere la vittimizzazione. La teoria femminista al momento, specialmente la teoria giuridica femminista, tende a focalizzarsi sulle donne come vittime passive. Per MacKinnon ad esempio, le donne sono state talmente trasformate dall'uomo in oggetti che è un miracolo il fatto che siano ancora capaci di esistere. Le donne sono vittime, sono coloro che subiscono, senza strumenti, fino a che, grazie a l'illuminazione radicale, vengono messe in grado di agire per se stesse.22 Per West, similmente, il «fatto fondamentale» è che le donne vivono nel dolore, «la violenza, il pericolo, la noia, la non produttività, la povertà, la paura, lo stordimento, la frigidità, l'isolamento, la poca stima di sé e i patetici tentativi di rendersi simili [ai maschi]».23
Questa storia della donna come vittima ha lo scopo di incoraggiare la solidarietà, enfatizzando la comune oppressione, negando o minimizzando così la differenza, e di allargare la nozione di una donna essenziale colei che è vittimizzata. Ma come ha brevemente notato Bell Hooks, la nozione che la comunanza delle donne sta nella loro vittimizzazione da parte degli uomini «riflette direttamente il modo di pensare della supremazia maschile. L'ideologia sessista insegna alle donne che essere femmina vuol dire essere vittima».24 Inoltre la storia delle donne come vittime passive nega la loro capacità di modellare la propria vita, per il peggio o per il meglio. Può anche frustrare le loro capacità. Come Minnie Bruce Pratt, riluttante a guardare oltre l'esperienza comune della vittimizzazione per paura di mettere in pericolo la comodità dell'esperienza condivisa, così le donne che definiscono se stesse in base all'essere vittime possono esitare ad abbandonare tale condizione e a autodeterminare il proprio sé.
A livello individuale le donne nere hanno dovuto imparare a costruire se stesse in una società che nega il loro sé. Di nuovo, gli scritti di Zora Neale Hurston sono suggestivi. Sebbene Hurston giochi con l'essere «il suo sé di colore» e ancora, con l'essere «l'eterno femminino con il suo filo di perle», conclude l'articolo How it feels to be colored me (Che sensazione da il mio sé di colore) con un'immagine di se stessa che non è né essenzialmente nera, né essenzialmente femmina, ma semplicemente: «Una busta di carta marrone appoggiata contro il muro. Contro il muro in compagnia di altre buste, bianche, rosse e gialle. A rovesciarne il contenuto, si scopre un guazzabuglio di piccole cose senza valore. Un diamante fasullo, un rocchetto vuoto, pezzettini di un vetro rotto, dei lacci, una chiave per una porta sgretolata da lungo tempo, la lama arrugginita di un coltello, vecchie scarpe messe da parte per percorrere una strada che non si è mai percorsa e mai si percorrerà, un'unghia piegata sotto il peso di cose troppo pesanti per qualsiasi unghia, un fiore secco, o due ancora freschi. Tieni in mano la busta marrone. Per terra di fronte a te c'è il guazzabuglio di cose che conteneva così simile al guazzabuglio nelle borse, che se potessi svuotarle, e buttare via tutto con un solo gesto, si riempirebbero di nuovo senza che il contenuto venga alterato granché. Un pezzetto di vetro colorato in più o in meno non fa differenza. Forse è così che il Grande Riempitore delle Borse le ha riempite all'inizio chi può dirlo?».25
Hurston perciò insiste sulla concezione di identità come una costruzione, non un'essenza qualcosa fatto di frammenti di esperienza, non scoperto nel proprio corpo, o svelato dopo l'eliminazione del dominio del maschio.
Quindi l'insistenza sull'importanza della volontà e della creatività sembra minacciare il femminismo a un certo livello, perché restituisce forza al concetto di autonomia, rendendo possibile il riconoscimento dell'elemento di consenso in relazioni di dominio, e attribuisce alle donne il potere, mostrando così le colpe delle donne bianche per i molti modi in cui hanno usato i loro privilegi di razza contro le loro sorelle nere. Sebbene le femministe abbiano ragione nel riconoscere la forza potente della mera coercizione fisica nell'assicurarsi la condiscendenza all'egemonia patriarcale, dobbiamo anche «venire a patti con i modi in cui la cultura delle donne è servita a garantire l'appoggio delle donne nel perpetuare le relazioni di potere esistenti».26
Comunque, a un altro livello, il riconoscimento del ruolo della creatività e della volontà nel modellare le nostre vite è liberatorio, perché ci permette di renderci conto e di celebrare la creatività e la gioia con cui molte donne sono sopravvissute e hanno rovesciato le relazioni di dominazione esistenti, per usarle per i propri fini. Lavori della letteratura nera come Beloved, The color Purple e Song of Solomon, tra gli altri, non indugiano sulla vittimizzazione e la miseria delle donne nere: sebbene riconoscano la nostra sofferenza, celebrano alla fine la nostra trascendenza.
Alla fin fine, a un livello collettivo, questa enfasi su volontà e creatività ci ricorda che i ponti tra donna e donna vengono costruiti, non trovati. La scoperta di una sofferenza condivisa è una connessione più illusoria che reale: ciò che davvero ci unirà e ci terrà unite sono la fatica e l'immaginazione necessarie per scoprire ed esaminare le nostre differenze, perché solo il riconoscimento delle differenze tra le donne può alla fine portare il movimento femminista alla forza. È un lavoro duro, un lavoro doloroso; ma è anche un lavoro radicale, un lavoro reale. Come ha detto Barbara Smith, «Ciò che sento veramente radicale è il tentativo di realizzare delle coalizioni con persone che sono diverse da te. Sento che è radicale occuparsi di razza e sesso e identità sessuale tutto allo stesso tempo. Penso che questo sia radicale perché non è mai stato fatto prima».27


Epilogo: coscienza multipla
Ho affermato in questo articolo che l'essenzialismo di genere è pericoloso per la teoria giuridica femminista, perché nel tentativo di estrarre un sé femminile essenziale e una voce dalla diversità della esperienza delle donne, le esperienze delle donne percepite come diverse vengono ignorate, o trattate come variazioni della norma (bianca). Ora voglio tornare a un punto precedente: che la teoria giuridica, inclusa la teoria giuridica femminista, è rimasta paralizzata troppo e per troppo tempo dalla voce di noi il popolo. Per ridare energia alla teoria giuridica dobbiamo rovesciarla con narrazioni e storie, il racconto dei particolari, del diverso e di ciò che è stato, fin qui, taciuto.
Che sia per caso o no, molti teorici del diritto che raccontano storie in questi giorni sono donne nere. Mari Matsuda invita a usare «l coscienza multipla come metodo della giurisprudenza»28 Patricia Williams mostra la via con le sue storie multistrato e le sue meditazioni.29 Si tratta di scritti salutari per la teoria giuridica femminista così come per quella giuridica più in generale. Nel riconoscere «la complessità dei messaggi impliciti nel nostro essere», danno il via al compito di ravvivare la teoria giuridica con la lotta creativa tra Funes e noi il popolo: quella lotta creativa che è il riflesso di una coscienza multipla.





NOTE

1 Articolo pubblicato con il titolo Race and Essentialism in Race, Ethnicity, Gender and Human Rights in the Americas: A New Paradigm for Activism, a cura di Celina Romany, American University, Washington D.C., 2001.

2 Robert M. Cover, Violence and the World,95 Yale L.J. 1601 (1986).

3 Henry Louis Gates, Jr., Editors Introduction: Writing Race and the Difference It Makes, in Race, Writing and Difference, a cura di Henry Louis Gates, Jr., 1986, pag. 1-16.

4 Mari J. Matsuda, When the First Quail Calls: Multiple Consciousness and Jurisprudential Method, 11 Womens Rts. L. Rep., 1989, pag. 7-9.

5 Teresa de Lauretis, Feminist Studies/Critical Studies: Issues, Terms and Contexts, in Feminist Studies/Critical Studies, a cura di Teresa de Lauretis, 1986, pag; 1-8.

6 Cynthia Ozick, Innovation and Redemption: What Literature Means, in Art and Ardor n. 247, 1983.

7 Matsuda, op. cit. (vedi nota 3).

8 Ibidem.

9 Audre Lord, Age, Race, Class and Sex: Women Redefining Difference, in Sister Outsider, 1984, pag. 114-120.

10 Christine A. Littleton, Feminist Jurisprudence: The Difference Methods Makes, recensione, in Stan L. Rev. n. 41, 1989, pag. 751-764.

11 Adrienne Rich, Disloyal to Civilization: Feminism, Racism, Gynephobia, in On Lies, Secrets and Silence, 1979, pag. 275-299.

12 Audre Lord, op. cit. (vedi nota 8), pag. 122.

13 Bell Hooks, Talking Black: Thinking Feminist, Thinking Black, 1989, pag. 11-12.

14 Pubblicato in Signs n. 14, 1988, pag. 5.

15 Ibidem, pag. 5.

16 Ibidem, pag. 6-7.

17 Ibidem, pag. 6.

18 Ibidem.

19 Ibidem, pag. 24.

20 Ibidem, pag. 22.

21 Toni Morrison, SULA 52, 1974.

22 Andrew Ross, Politics Without Pleasure, recensione, in YALE J.L. and Humanities n. 1, 1989, pag. 193-200.

23 West, 3 WIS. Womens L.J. 143, 1987.

24 Bell Hooks, Feminist Theory: From Margin to Center, 1984, pag. 45.

25 Z. Hurston, in YALE J.L. and Humanities n. 1, 1989, pag. 155.

26 Joan C. Williams, Deconstructing Gender?, in MICH. L. REV. n. 87, 1989, pag. 829.

27 Barbara Smith a Beverly Smith, Across the Kitche Table: A Sister-to-sister Dialog, in This Bridge Called My Back: Writings by Radical Women of Color, a cura di C. Moraga e G. Anzaldúa, seconda edizione, 1983, pag. 126.

28 Matsuda, op. cit. (vedi nota 3), pag. 9.

29 Patricia J. Williams, Alchemical Notes: Reconstructing Ideas from Deconstructed Rights, in HARV. C.R.-L. L. REV., 1987, pag. 401. Vedi anche nota 13.