Quando le femministe dicono che il multiculturalismo danneggia le donne

di Leti Volpp
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Secondo alcune critiche femministe la cultura degli immigrati non può essere accolta in una società multiculturale senza che vengano minacciati i principi femministi; a supporto di questa tesi viene citata una manciata di casi molto pubblicizzati dai media, casi in cui gli imputati hanno cercato di far ammettere al processo prove a loro discarico fondate sulla cultura di provenienza.

Questi casi di “attenuanti culturali”[1] coinvolgono sempre immigrati non bianchi, accusati di violenza verso donne o bambini: come ad esempio tentati suicidi in cui il genitore trascina nel gesto il figlio, matrimoni forzati di ragazze adolescenti, matrimoni realizzati attraverso il sequestro di persona, uxoricidi e mutilazioni dei genitali femminili.

Secondo queste critiche femministe si tratta di casi giudiziari che dimostrano come gli immigrati non europei, in particolare quelli provenienti dall’Asia e dall’Africa, portino con sé, quando vengono negli Stati Uniti, i loro costumi patriarcali.

Per rispetto al concetto di multiculturalismo, alcuni tribunali, nei casi in cui imputati erano degli immigrati, hanno permesso che venissero ammesse come valide prove a discarico fondate su fattori di tipo culturale. L’ammissione di tali attenuanti pone un dilemma e crea una contrapposizione tra i valori del femminismo e quelli del multiculturalismo. Secondo queste critiche femministe, la contrapposizione si deve risolvere in favore del femminismo, e le attenuanti di tipo culturale non devono essere accettate dalle corti penali; se non si facesse ciò - dicono - verrebbero violati i diritti di donne e bambini immigrati a ricevere protezione uguale ai non immigrati/e.

Le argomentazioni offerte dalle femministe anti-multiculturalismo poggiano la loro coerenza logica su quattro principali errori:

- il postulato secondo cui le immigrate non bianche sarebbero per definizione vittime della cultura patriarcale;

- una visione della cultura statica e monolitica;

- il guardare le comunità immigrate attraverso le lenti del razzismo culturale;

- la convinzione che permettere agli immigrati imputati in un processo penale di presentare a loro discolpa informazioni sulla loro cultura e il loro contesto sociale sia antifemminista.

L’affermazione che le immigrate non bianche siano sempre vittime della cultura patriarcale poggia su diverse presunzioni di principio.

Per esempio, si presume che le donne che immigrano negli Stati Uniti si spostino in una società più liberata, più illuminata ed emancipata di quella dalla quale provengono. Ne consegue che la cultura degli immigrati dall’Asia e dall’Africa sarebbe sempre patriarcale, e che le donne americane sarebbero più liberate delle altre donne, che invece sono oppresse. Come dice Susan Moller Okin, «mentre virtualmente tutte le culture del mondo hanno un evidente passato patriarcale, alcune (anche se assolutamente non tutte) culture liberali occidentali si sono liberate ormai da tempo di tale cultura».[2] Questa posizione stabilisce tout court che la cultura degli immigrati non europei sia maschilista e che il femminismo sia americano. Si tratta di postulati che finiscono con l’ignorare temi da lungo tempo in discussione tra le studiose di femminismo: come il fatto che la cultura “americana” o “occidentale” è anch’essa patriarcale, e anche le immigrate non europee possono essere femministe.

Le femministe anti-multiculturalismo adottano una versione del femminismo che replica la visione coloniale, prevalente un secolo fa e ora criticata come razzista e imperialista. Come ha notato Hazel Carby, la versione “femminista” dell’ideologia razzista presenta le immigrate come donne che chiedono una liberazione nell’ambito dei costumi sociali avanzati dell’Occidente metropolitano.

Un altro postulato erroneo è rappresentato dalla separazione scorretta fra dimensione di razza e dimensione di genere.

Nello stabilire che il femminismo è euro-americano e che le culture non europee sono dominate dai maschi, le femministe anti-multiculturalismo guardano alla differenza di genere senza tener conto di altri fattori sociali, come la razza, lo status di immigrato, la povertà, la sessualità o l’imperialismo. Ciò convalida la convinzione che gli Stati Uniti siano la terra promessa per la liberazione delle donne immigrate, e che siano i maschi misogini a determinare la “cultura” delle comunità immigrate. Questa interpretazione ignora la possibilità che le donne immigrate abbiano resistito all’oppressione esercitata su di loro.

Ancora un altro postulato ricorrente è quello secondo cui il femminismo dovrebbe sempre essere dalla parte dei diritti della vittima. La cultura femminista ha sviluppato il concetto moderno di “donna” ponendo la differenza sessuale al di sopra di ogni altro fattore di oppressione, e ha affermato l’esistenza di una subordinazione di genere che è universale e che attraversa spazio e tempo. Questa versione del femminismo è stata criticata come “essenzialismo di genere”. Come sottolinea Inderpal Grewal, la questione prioritaria nell’agenda del femminismo americano “accademico” è diventata la violenza sessista, intesa come violenza domestica e stupro, poiché si tratta di crimini che dimostrano l’oppressione della donna da parte dell’uomo e, dunque, l’universalità dell’esperienza delle donne. Questa concezione, in cui fenomeni come la povertà e il razzismo vengono completamente trascurati, a favore di un'interpretazione culturalmente connotata del sessismo, ignora qualsiasi altro contesto che possa aver modellato l’esperienza di una donna e il suo comportamento.

L’incapacità di analizzare la subalternità di un’immigrata non europea a volte interagisce in modo preoccupante con il modo di intendere i concetti di vittima, azione e resistenza. Così, le femministe anti-multiculturalismo presuppongono che le immigrate vittime di un crimine siano oggetti passivi,in attesa di venire salvate dal potente braccio della legge e dalla generosità del femminismo euro-americano. Quando sono le stesse immigrate a commettere un crimine, ecco che vengono considerate agenti e difensori della loro cultura patriarcale, impegnate in frodi e brutalità. L’opposizione dualista - o vittima o criminale - nasce dall’abbracciare totalmente i diritti delle vittime. Una visione più sfumata e più legata al contesto delle immigrate interpreterebbe invece le loro azioni all’interno di un complesso di fattori sociali variegati, frantumati, senza negare loro una piena umanità.

Una lettura più attenta di casi giudiziari come, per esempio, quelli in cui una madre ha tentato il suicidio trascinando con sé il proprio bambino, non interpreterebbe questo crimine come la risposta obbligata della donna al disonore. Ci vedrebbe piuttosto le conseguenze della sua estrema emarginazione e degli abusi subiti, ci vedrebbe un’azione esercitata dalla donna dentro quel contesto. Le donne non vengono sussunte dalle culture, ma contrattano attivamente con esse.

Tra i fautori dei “diritti della vittima” c’è il giudice Scalia, un conservatore tutto legge e ordine, anche lui schierato nella richiesta di maggiore protezione per le vittime di violenza sessista. La difesa dei diritti delle vittime da un punto di vista femminista è piuttosto comune, ma altamente problematica. Come ha scritto Mari Matsuda, focalizzare esclusivamente sui crimini contro le donne distoglie l’attenzione dai crimini del sistema giudiziario in sé, dei quali il più ovvio è il razzismo. Questo razzismo si nasconde nella scelta di un procedimento secondo il quale il fatto di non tenere conto dell’aspetto culturale porterebbe a un processo di decisione non influenzato dalla cultura di appartenenza e non razzista.

Le femministe anti-multiculturalismo presumono che le culture degli immigrati non bianchi siano statiche e monolitiche - e anche questo è un errore. Insistendo nell’affermare che gli immigrati non europei sono legati a “rituali”, “usi”, “pratiche primitive” e “tradizioni”, incoraggia un’idea di cultura da cui vengono esclusi gli effetti di fattori come le condizioni sociali, la pressione economica e il razzismo. È un modo di vedere che ignora come, della stessa cultura, si possano fare esperienze diverse, contrastate e conflittuali all’interno delle diverse comunità. E se non si comprende questo, le rappresentazioni di una cultura si limitano a stereotipi.

La cultura non è una qualche essenza statica, fissata, monolitica. Ma le femministe anti-multiculturalismo non lo riconoscono. Prendiamo il caso giudiziario di Chen.[3] Burton Pasternak, l’antropologo che ha testimoniato in aula come esperto della difesa, ha affermato che le differenze culturali tra “cinesi” e “americani” potrebbero portare un cinese ad agire con minore equilibrio di un americano di fronte al tradimento della moglie. Per dimostrare alla Corte che per un cinese, in quelle circostanze, uccidere la moglie non è un fatto inusuale, Pasternak ha reso assoluta la supposta differenza tra cinesi e americani: una differenza così grande che, quando gli è stato chiesto di definire cosa intendesse per “americano”, ha risposto indicando se stesso, un maschio bianco, come l’americano medio, e descrivendo sinteticamente l’americano come un “non cinese”.

Quando gli studiosi descrivono la cultura dei non europei con parole come “secolare”, “tradizione”, e “costume”, ritraggono i membri di una comunità come se il loro comportamento fosse dettato esclusivamente da rituali ancestrali. Questo non prende affatto in considerazione l’influenza che lo stato o la comunità dominante esercitano sulla loro cultura. Per esempio, quando si definiscono i cosiddetti sweatshop - cioè l’estremo sfruttamento degli immigrati da parte di altri immigrati - come un fenomeno culturale, non vengono prese in considerazione la complicità delle imprese transnazionali (i produttori dell’industria dell’abbigliamento e i commercianti) e quella dello stato (agenzie governative).

Per accertare la validità della difesa di un imputato che invoca attenuanti “culturali” è necessaria una visione più ampia di ciò che costituisce una “cultura”. Le attenuanti culturali dovrebbero comprendere informazioni sugli effetti che lo stato, le grandi imprese e la comunità dominante hanno su un immigrato; sugli effetti di fattori come la condizione di immigrato regolare o irregolare, la scarsa familiarità con il locale dipartimento di polizia, le costrizioni di tipo economico, il razzismo e la violenza contro gli immigrati, la mancanza di rifugi per le immigrate vittime di violenza domestica.

Le femministe anti-multiculturalismo, inoltre, ignorano che l’esperienza che i singoli individui di una comunità hanno della cultura è molto diversa a seconda di età, sesso, classe, razza, orientamento sessuale. Capire questo è cruciale quando ci si occupa di casi in cui degli immigrati difendono la violenza esercitata contro le donne invocando la propria diversità culturale. Piuttosto che percepire queste come situazioni in cui la cultura “occidentale” femminista deve correre al salvataggio dell’immigrata dalla cultura patriarcale, dovremmo capire, invece, la domanda che esse sollevano: come smantellare le pretese di autorità culturale - pretese peraltro contestate all’interno delle comunità stesse - che si annidano in specifiche interpretazioni della legge? Certo, tener conto di fattori legati alla cultura sapendo che quella stessa cultura è oggetto di una contestazione interna, è un compito improbo; ma l’obiettivo dei processi, come ha sottolineato Ho

Omettere di notare che una cultura è contestata all’interno delle stesse comunità permette alle femministe anti-multiculturalismo di passare da una critica alle “attenuanti culturali” sostenute in questi casi, alla condanna generale di ogni rivendicazione “culturale”. Ma perché accettare che il ritratto di una cultura così come emerge da qualche caso giudiziario definisca l’intera cultura di una comunità? È ovvio che gli imputati ai processi usano qualsiasi mezzo, incluso il giocare sul razzismo e altri stereotipi, per giustificare le loro azioni.

Le femministe anti-multiculturalismo sostengono che la cultura degli immigrati dall’Asia e dall’Africa è arretrata rispetto alla “cultura americana”. Sostengono, inoltre, che ammettere l’ingresso di questa cultura nel nostro sistema giudiziario metterebbe in pericolo il progresso a livello del nucleo centrale della “cultura americana”, dal momento che nelle tradizioni culturali non europee c’è uno sciovinismo che contrasta con la “cultura americana”. Accettando questa premessa, ogni volta che la cultura nazionale, e il rispetto della legge, siano in pericolo bisognerebbe rinunciare all’ideale multiculturale di uguale rispetto per tutte le culture.

L’idea che certe culture siano “più avanzate” è stata screditata come razzista, ormai da decenni. Gli studiosi, sottolineando che è un’idea sviluppatasi al servizio della conquista globale occidentale, sostengono che la costruzione dell’“Altro” primitivo ha permesso all’Occidente di definire per se stesso un'identità progressista, usata per giustificare il colonialismo e l’imperialismo. Il riferimento a pratiche culturali “inferiori” viene frequentemente utilizzato per argomentare la necessità di un abbandono di tali pratiche da parte di alcune comunità, come condizione per un’assimilazione di queste ultime nella nostra “cultura nazionale”.

È di grande importanza capire come queste idee di inferiorità culturale e di differenza si dispieghino nell’apparato giudiziario e nello stato. Le femministe anti-multiculturalismo percepiscono la differenza culturale come una minaccia all’uniformità della nostra legge e della nostra nazione: questo presume che ad affrontare la minaccia costituita dalla differenza sia un regime giudiziario uniforme ed equilibrato, ma in realtà sul sistema giudiziario degli Stati Uniti le influenze culturali pesano, ed è una cultura specifica quella su cui si basa il diritto.

Le femministe anti-multiculturalismo affermano che la cultura etnica degli immigrati è fondamentalmente incompatibile con la Costituzione degli Stati Uniti, e con la “cultura americana unificante”. Così, per poter provare quanto sia allarmante l’oppressione sessuale nelle comunità di immigrati, le femministe anti-multiculturalismo devono dare della cultura “americana” un’immagine di cultura unificata e progressista, negando l’esistenza della cosiddetta tradizione sciovinista americana: una storia basata sull’etnocentrismo e sulla violenza sessista.

Sono tempi difficili, questi, per le comunità immigrate. Le pressioni dell’economia globale negli Stati Uniti hanno portato a processi di ristrutturazione economica e si sono risolte al contempo in attacchi agli immigrati e in un risorgere del nazionalismo razzista. Da tempo ormai gli Stati Uniti non accolgono più a braccia aperte le masse di poveri che bussano esausti alle sue porte; la politica di accoglienza agli immigrati è diventata selettiva, di questi tempi.

Se si guarda alla categoria sempre più ristretta delle persone che vengono considerate “accettabili” in questo paese, si potrebbe dire che alla categoria “titolare di cittadinanza” si accorda oggi una posizione di privilegio analoga a quello storicamente rappresentato dall’avere la pelle bianca. L’emarginazione di certi gruppi di immigrati è largamente un prodotto della suddivisione delle persone in base alla razza. Come ha detto Bill Ong Hing: «Non è un caso che la statua della Libertà si affacci sull’Europa e volti la schiena all’Asia e all’America Latina».

Questo razzismo è facilitato dalla fusione fra nazione e famiglia. Come ha sottolineato Etienne Balibar, il fatto che le premesse del nazionalismo si fondino sull’identificare una “comunità nazionale” con una parentela simbolica, incoraggia gli attuali attacchi agli immigrati.

Questa nazione, basata su una “cultura nazionale unificata”, è ciò che Benedict Anderson chiama «una comunità immaginaria», in cui la nazione, malgrado il prevalere delle attuali disuguaglianze e dello sfruttamento, è concepita come una forma di profondo, equilibrato cameratismo.

Le femministe anti-multiculturalismo dipingono una società in cui il razzismo è solo uno spauracchio del passato, una società in cui prevalgono la democrazia e il progresso, e le differenze esistono solo al di fuori della legge, nella forma di culture diverse, mentre l’applicazione neutrale della legge è in grado di garantire la giustizia e l’eguaglianza. Ma la legge non è neutrale e i principi astratti di eguaglianza non garantiscono la giustizia, come gli studiosi fanno presente da molti decenni a questa parte. La convinzione secondo la quale gli immigrati e le immigrate rappresentano una minaccia - rubano il lavoro, infrangono la legge, si fanno mantenere dallo stato sociale e minacciano la cultura nazionale - porta con sé, per coloro che sentono l’urgenza di predicare l’assimilazione, l’idea di una sfida. Ed è nel contesto di questo senso comune oggi così diffuso che le femministe anti-multiculturalismo propongono la loro caricatura semplicistica di che cos’è il multiculturalismo. Una versione di multiculturalismo che richiederebbe l’accettazione dei comportamenti e dei costumi bizzarri dei non bianchi, a spese dei vari e celebrati “principi americani”, in nome dell’eguale rispetto per ogni comunità.

In un articolo che prende in considerazione le difficili sfumature del “parlare di cultura” nel contesto della violenza sessuale contro le donne di colore, la studiosa Sherene Razack sostiene che, di fronte al razzismo, a volte sarebbe ragionevole se le femministe non parlassero affatto di cultura. Lo afferma a causa dell’idea prevalente che la violenza nelle comunità di immigrati sia una sorta di attributo culturale. Il dominio maschile viene così considerato come un connotato caratteristico della cultura delle comunità immigrate, che nell’Occidente progressista sarebbe invece in larga misura un retaggio del passato.

Non ci si può accostare alla difficile questione sollevata dalle “attenuanti culturali” con un approccio “tutto-o-niente”: non si può, cioè, pensare che queste prove o vanno sempre ammesse nel corso dei procedimenti giudiziari, o vanno sempre rifiutate in blocco.

Maguigan ha affermato che il razzismo e il sessismo endemici nei procedimenti giudiziari rendono impossibile bandire le “attenuanti culturali”, perché il razzismo e il sessismo portano comunque sempre a interpretare lo stato mentale dell’imputato come o inaccettabile o incomprensibile. Nei casi di violenza sessista Maguigan chiede al pubblico ministero di contestare l’uso delle “attenuanti culturali” attraverso il contro interrogatorio, la confutazione delle testimonianze e l’uso di argomentazioni ragionate. Dato il razzismo culturale che informa frequentemente questi casi giudiziari, varrebbe la pena di esaminare la posizione subordinata di chi sta facendo valere le attenuanti culturali, e accertare se il loro uso rinforza gli stereotipi che servono a perpetuare la subordinazione.

Le informazioni sulla cultura dell’imputato non dovrebbero mai essere ridotte a stereotipi su una data comunità, ma dovrebbero sempre rivolgersi concretamente alla sua posizione individuale nella comunità, nella storia, nella diaspora.

Il pubblico ministero e i diversi gruppi della comunità dovrebbero sempre confutare come irrilevanti le prove basate su stereotipi che hanno poca aderenza alla realtà, e dovrebbero portare testimonianze per dimostrare come certe nozioni particolari vengono contestate all’interno della stessa comunità; dovrebbero inoltre presentare delle prove basate su descrizioni accurate delle pressioni subite da un individuo, sia all’interno che all’esterno della comunità.

Le femministe anti-multiculturalismo insistono sull’escludere totalmente dai processi penali qualsiasi riferimento alla diversità “culturale”, eccetto che nella fase in cui viene formulata la sentenza, quando l’imputato può presentare, quali circostanze attenuanti, delle prove sull’influenza che il contesto culturale ha avuto sulla sua condotta.

Comunque, come sottolinea Maguigan, data la completa discrezionalità del giudice in questa fase del processo, limitare a questa fase l’accoglienza di informazioni di tipo culturale significa rischiare la discriminazione sistematica nei confronti delle persone di colore.

Ammettere le “attenuanti culturali” solamente nella fase della formulazione della sentenza preclude l’ammissione di qualsiasi testimonianza di tipo culturale presentata come “scusante o motivazione” per gli atti dell’imputato. Cosa significa questo per una immigrata accusata di aver tentato il suicidio insieme a suo figlio? Un’imputata, ad esempio, che chieda di far ammettere nel processo testimonianze relative sia alla sua “sindrome della donna maltrattata”, che riferite ad altri aspetti specifici della sua condizione di donna di colore e immigrata. Presumibilmente questa formulazione le permetterebbe l’ammissione di prove relative al suo stato mentale di donna vittima di abusi, proprio come a qualsiasi donna americana, ma le vieterebbe l’uso di prove direttamente rilevanti sul suo stato mentale.

Questo schema escluderebbe dal processo prove atte a dimostrare come la donna fosse incapace di sottrarsi alla relazione in cui subiva gli abusi, sia per via delle strutture patriarcali della sua comunità, che le facevano mancare supporto e appoggio, sia per quelle esterne alla comunità, come il fatto che la polizia non credeva alla sua storia. Rilevanti inoltre, ma non ammesse in questo schema, sarebbero le prove relative al suo status di immigrata e alle preoccupazioni da ciò derivate, l’impossibilità di trovare un lavoro senza padronanza dell’inglese, e la mancanza di rifugi per le donne maltrattate che siano accessibili anche a persone che non parlano inglese. L’esclusione di questo tipo di prove, in nome dell’intenzione di salvare le immigrate e i loro bambini dallo “sciovinismo che è al centro delle loro tradizioni”, non è una risposta efficace o appropriata alle difficoltà poste dall’ammissione di attenuanti culturali i

Infine, un ultimo tema rispetto al quale è utile approfondire il non detto che si cela dietro le argomentazioni delle femministe anti-multiculturalismo, è la questione delle domande d’asilo dovute alla fuga dalla violenza sessista.

Si tratta di un’area del diritto che si sta fortemente espandendo e che, come quella delle “attenuanti culturali”, sta sollevando delle difficili questioni sull’interazione tra genere, razza, nazione, cultura e stato. Anche questo è un argomento da non analizzare in modo riduttivo, ma da comprendere nelle sue sfumature. Come ha sottolineato Razak, i resoconti che emergono dai casi di asilo concesso per tutelare una donna dalla violenza sessista, possono rinforzare gli stereotipi su cultura e identità nazionale, proprio come quelli sull’ammissione delle “attenuanti culturali” possono rinforzare luoghi comuni come la convinzione che gli Stati Uniti siano un paese “libero dalla violenza”, o che i paesi non euro-americani siano estremamente patriarcali. Il problema è che criticare l’etnocentrismo con cui vengono viste le rifugiate, può mettere in pericolo la loro stessa richiesta di asilo.

Con questo infatti non intendo proporre che si smetta di concedere asilo alle donne minacciate per motivi sessisti, ma suggerire che possono esserci altre tattiche per far ottenere l’asilo alle donne che lo chiedono, tattiche che non rinforzano gli stereotipi. Un modo possibile di mediare tra questi interessi è focalizzarsi sul ruolo dello stato: in particolare sul fatto che lo stato di provenienza della donna nei fatti promuove la violenza sessista, o non protegge le donne da questo tipo di violenza. Questo può aiutare a evitare alcuni degli stereotipi più perniciosi sulle “tradizioni nazionali”, o sulle “culture”.

Un altro approccio, come suggerisce Razek, è quello di accertare quanto la violazione dei diritti umani abbia ristretto le possibilità di scelta di una donna, incluse le sue eventuali opzioni economiche. Qualsiasi sia la tattica specifica, è importante capire che da particolari casi di richiesta di asilo, o di ammissione di “attenuanti culturali”, emergeranno dei messaggi: messaggi che saranno recepiti dal pubblico come facenti parte di determinati schemi narrativi sull’identità di genere, la cultura, la nazione, la razza.

È fondamentale abbandonare questa concezione etnocentrica dell’inferiorità di certe culture e capire che tutte le comunità sono caratterizzate sia da una struttura patriarcale che dalla resistenza a tale struttura. Bisogna altresì comprendere che vedere il multiculturalismo come antitetico al femminismo è una falsa contrapposizione, e che essa è basata sul razzismo.

Rifiutare un’aperta considerazione delle questioni inerenti alla “razza” o alla “cultura” nel nostro sistema giudiziario, non si tradurrà in una giustizia meritocratica e oggettiva, ma in una replica dei modelli dominanti di potere. Sono queste le premesse da capire per poter andare avanti nello studio delle relazioni tra diritto e cultura.

 

Tratto da “Diritti e rovesci. I diritti umani dal punto di vista delle donne” Aidos 2001

* Articolo pubblicato con il titolo “When Feminists Call Multiculturalism Bad for Women” in Race, Ethnicity, Gender and Human Rights in the Americas: A New Paradigm for Activism”, a cura di Celina Romany, American University, Washington D.C., 2001.

[1] N.d.c. Il concetto di “attenuanti culturali” si è recentemente affacciato anche nelle aule giudiziarie italiane. Secondo quanto riferisce La Repubblica il 18 dicembre 2001, a Ercole Hudorovic, nomade di 42 anni che aveva ucciso a sangue freddo un uomo sorpreso in compagnia della sua ex moglie, la Corte d’appello di Venezia avrebbe ridotto la pena da 17 a 14 anni di reclusione perché, secondo il difensore dell’imputato, i giudici «hanno ritenuto di dover calare il fatto nell’ambiente culturale in cui l’uomo è vissuto». La corte si è pronunciata nel senso di un «disvalore morale del gesto, ma non interpretato come tale dal soggetto».

[2] Susan Moller Okin, “Is Multiculturalism Bad for Women?”, in Boston Review n. 22, 1999, pag. 25.

[3] People v. Dong Lu Chen, Corte suprema di New York, 2 dicembre 1998, n. 87-8774.