La ricerca sul campo: risultati e considerazioni*

di Carla Pasquinelli

1. Problemi di nome

Nel corso della ricerca ci siamo più volte chieste quanto fosse opportuno continuare a usare un'espressione così drastica come Mgf, dopo che avevamo notato come venisse ogni volta accuratamente evitata da tutte le nostre intervistate e sostituita con quella più generica di circoncisione o con altri nomi locali. Ci siamo quindi trovate quasi subito nella condizione di dovere ripensare il nostro punto di vista, se non altro per rispettare una delle prescrizioni metodologiche che ci eravamo date: la riproblematizzazione delle nostre categorie per porre le donne intervistate al riparo dalle nostre proiezioni culturali.

Questo perché nelle interviste e ancor più nei focus group avevamo avuto modo di renderci conto di quanto tale espressione risultasse offensiva per le dirette interessate, che non potevano accettare di considerare mutilati i propri corpi. Ma soprattutto ci eravamo accorte che la ritenevano inadeguata a descrivere delle trasformazioni che per loro rispondono a dei canoni estetici di bellezza e di perfezione del corpo femminile che sono profondamente radicati nella loro cultura.

Mgf è in effetti un'espressione etnocentrica fondata su canoni occidentali, seppure adottata dalle stesse africane del Comitato inter-africano sulle pratiche tradizionali rilevanti per la salute di donne e bambine/i, e gravata da un pesante giudizio negativo che comporta l'inferiorizzazione dell'Altro. Questo aspetto è stato colto immediatamente da parte delle donne intervistate che hanno reagito ogni volta difendendosi con l'aggressività o con il silenzio, ostacolando o rendendo certamente più difficile in entrambi i casi il nostro tentativo di farne oggetto di discorso e di sollecitare una presa di coscienza della loro situazione, che veniva in tal modo spostata o rimossa. Finché una di loro ci ha detto ´non mi piace come la chiamate voi, sembra che nella nostra cultura ci sia qualcosa che non va e invece non è vero. Sembra che i nostri genitori abbiano fatto una cosa cattiva, che ci abbiano fatto male. Quando sento "mutilazione sessuale" mi arrabbio, c'è un giudizio, io non mi sento mutilataª.

Non a caso questa espressione non viene mai usata nemmeno da quelle donne che hanno cominciato a prendere le distanze da tale pratica. Anche loro come le altre quando ne parlano preferiscono i nomi tradizionali; le somale ad esempio la chiamano "cucitura". Dove l'enfasi è sul cucire, sul chiudere, mentre per noi è sul tagliare, asportare, deformare. Questa disparità di significati non ci pone però solo di fronte a un problema etico, è prima ancora una questione epistemologica: nel senso che l'uso di termini così diversi rende assai improbabile che stiamo parlando della stessa cosa. Tanto più che riferirsi ad esse come Mgf condiziona anche noi osservatrici, non solo perché influenza le nostre rappresentazioni, ma perché contribuisce ancor prima ad articolare la costruzione stessa del discorso che viene organizzato secondo uno stereotipo spesso non troppo diverso da un pregiudizio.

Per noi il termine mutilazione ha un significato peggiorativo, allude all'idea di una menomazione, a un corpo deturpato, che ha cambiato irrimediabilmente aspetto sino a perdere la sua integrità e la sua armonia naturale. Per loro la circoncisione rappresenta invece una forma di intervento che, se la parola non si prestasse a equivoci, potremmo definire estetico, con cui si provvede a eliminare la parte "maschile" dei genitali femminili (la clitoride) ma anche, nel caso dell'infibulazione, a ripulirli delle ´parti molli e penduleª - come si sono espresse ridendo alcune donne somale nel corso di un focus group - fino a ridisegnare il profilo dei proprio corpo secondo un condiviso ideale di bellezza e di purezza. La conferma ci viene anche dal significato dei termini usati a livello locale dalle diverse etnie per indicare la circoncisione: la grande maggioranza di essi contengono l'idea di pulire, purificare, lavarsi (Burkina Faso, Mali, Sudan), o - quando si tratti di infibulazione - di sigillare, di chiudere, di cucire (Somalia), mentre è diffuso anche il significato di cerimonia e di iniziazione, che identifica l'operazione con il contesto rituale al cui interno acquista senso e legittimazione.

Invece di rendere le cose più chiare il termine Mgf finisce per caricarsi di ambiguità e di doppi sensi. Questa sensazione di ambiguità era destinata a aumentare ogni volta che a parlarne erano loro, dal momento che il termine da loro preferito di circoncisione ha per noi un significato molto più circoscritto che impercettibilmente filtrava i loro discorsi inducendoci ad assimilare le mutilazioni dei genitali femminili alla circoncisione maschile. Senza renderci conto di come il ricorso a uno stesso termine per entrambi i sessi faccia invece parte di una costruzione simbolica delle rispettive appartenenze di genere basata su una logica specularmente oppositiva. Tanto più che in entrambi i casi si tratta di intervenire per cancellare la bisessualità originaria fondata sulla presenza in entrambi i sessi di rudimentali organi genitali dell'altro sesso.

Ma c'è un altro motivo che ci ha indotto a interrogarci sull'adeguatezza di una espressione come Mgf, ed è la sua genericità, nel senso che ha uno spettro troppo largo. Sebbene ci rendiamo conto dell'utilità di una forma di classificazione generale, ci sembra però che sotto il termine Mgf vengano rubricate pratiche che si distinguono tra loro per quanto riguarda la gravità o l'estensione dell'intervento sui corpi, ma che hanno soprattutto conseguenze molto diverse sulla salute riproduttiva.

2. Le Mgf tra appartenenze culturali e diritti umani

In Italia le Mgf sono uno dei tanti problemi che l'immigrazione si è portata dietro, mettendoci bruscamente a contatto con usanze di cui poco o niente sappiamo. Ma nonostante lo scarso allenamento che abbiamo a confrontarci con le abitudini degli altri, e nonostante l'estremo riserbo con cui molto spesso questi altri si difendono dai nostri pregiudizi, anche noi dopo anni di disinteresse abbiamo finito per sentirci investiti da una situazione che si sta configurando come una nuova questione sociale. La presenza in Italia di donne che sono state sottoposte a una qualche forma di mutilazione dei genitali ci pone infatti di fronte a problemi particolari che richiedono misure e soluzioni specifiche.

Questa specificità è emersa in primo luogo a livello delle strutture sanitarie che si sono trovate a fronteggiare un'emergenza dovuta al tipo di richieste, di patologie e di terapie per le quali il personale medico e paramedico appare scarsamente attrezzato, non solo dal punto di vista sanitario, ma soprattutto culturale.

Ancora più complessa è la situazione che si profila sul piano dei diritti di cittadinanza, dove a essere in gioco è il precario equilibrio tra difesa dei diritti umani e rispetto delle differenze culturali. Le Mgf ci pongono di fronte a una situazione estrema, a un conflitto normativo fondato sulla difficoltà di riuscire a rispettare contemporaneamente i diritti umani di una persona e i valori della sua cultura se quest'ultima prevede tra i suoi codici la possibilità di attentare all'integrità fisica dei suoi membri.

Come riuscire allora a destreggiarsi tra due diversi imperativi morali: il rispetto della persona e il rispetto della cultura a cui appartiene quella persona, senza risultare lesivi nei confronti dell'una o dell'altra? Che sul piano operativo vuol dire: come possiamo aiutare una persona che è stata sottoposta a Mgf senza che questo intervento si traduca, nostro malgrado, in una critica o una denuncia della sua cultura?

Qualunque posizione si assuma rimaniamo esposti allo scacco. Ma non sempre chi ne parla sembra esserne consapevole. Se consideriamo la proliferazione di discorsi sulle Mfg che anche da noi hanno cominciato a investire in maniera capillare la sfera pubblica - istituzioni governative, Parlamento, organizzazioni politiche, televisioni, giornali, ecc. - raramente ci imbattiamo nel tono giusto, o almeno in un modo adeguato di affrontare una questione sociale così delicata. Prevale quasi sempre o una sorta di ottimismo della volontà, che supplisce a carenze di conoscenze e di analisi, o una perniciosa tendenza alla semplificazione, che trova nella sindrome da intervento umanitario un modo per evitare i complessi problemi sociali e culturali che pratiche come le Mgf si portano dietro.

E questo a cominciare dalla loro definizione.

Secondo il senso comune le Mgf sono un fatto culturale ma, come si è visto, non sono solo questo. In altre parole questa definizione è corretta, però è incompleta. Non fornisce infatti alcun quadro di riferimento che permetta di capire le strutture di significato socialmente stabilite al cui interno questo particolare fatto culturale acquista la sua intelligibilità.

Assumere le Mgf come un fatto culturale significa di fatto trasformarle in una pratica decontestualizzata, buona per tutte le interpretazioni. Nel migliore dei casi è un truismo, nel senso che è una spiegazione ovvia, nel peggiore rischia di tradurle in uno stigma, facendo il gioco di quanti non cercano di meglio che sostantivizzare le differenze culturali per poi poterne fare oggetto di discriminazione. Affermare che le Mgf sono un mero fatto culturale significa infatti ridurle a una forma di datità possibilmente esotica, ipostatizzandone quel margine di arbitrarietà che rende ogni fenomeno culturale irriducibile a qualsiasi altro, per trasformarlo così in un facile bersaglio dell'intolleranza razzista, pronta a tradurre ogni alterità in emarginazione.

Secondo la nuova frontiera del razzismo, che si è ripulito di nozioni e stereotipi sempre meno efficaci come quelli di razza e di inferiorità, e li ha sostituiti con categorie insospettabili come quelle di cultura e di differenza - il cosiddetto razzismo differenzialista, teorizzato da Taguieff e praticato da Le Pen e in una versione nostrana dalla Lega - la modalità di esclusione si fonda sull'incompatibilità di modelli e di stili di vita tra loro troppo diversi e immancabilmente approda all'invito a restarsene ciascuno a casa propria, onde preservare l'altrui e la propria cultura.

3. Interpretazioni del cambiamento e politiche sociali

Eppure tale definizione appare segnata proprio dalla preoccupazione di aggirare lo scoglio dell'intolleranza, e di evitare un giudizio di valore negativo nei confronti di un habitus che per la sua particolare natura cruenta si teme che possa suscitare - e di fatto suscita - le reazioni più varie, sia dal punto di vista emozionale che etico. Ricondurlo a un fenomeno culturale risponde alla necessità di esercitare la tolleranza, è un modo per limitare al massimo ogni proiezione etnocentrica, sottraendolo a valutazioni fondate sui paradigmi della propria cultura e spostando il problema sul terreno del rispetto tra culture. Nel fare questo ci si può però imbattere in uno scoglio ancora più grande rappresentato dal relativismo culturale e dalle sue insolubili aporie, e che nel caso delle Mgf può significare come riuscire a destreggiarsi nella difficile convivenza fra due ordini di priorità spesso tra loro incompatibili: il rispetto delle appartenenze culturali e la salvaguardia dell'integrità della persona.

Il relativismo è, com'è noto, quella prospettiva etica ma anche cognitiva che parte dall'assunto secondo cui ogni manifestazione culturale ha significato e validità soltanto all'interno del proprio contesto di riferimento e che pertanto ogni cultura può essere compresa o giudicata solo a partire dai propri criteri interni di valutazione e di giudizio. Questo vuol dire che mentre le culture sono poste su un piano di uguaglianza in quanto tutte hanno diritto al rispetto della propria diversità - dato che ogni cultura deve essere valutata e giudicata secondo i propri parametri - non altrettanto accade per gli individui che appartenendo a culture diverse sono soggetti a valutazioni e giudizi non uguali, in altre parole sono sottoposti a un trattamento discriminatorio che varia da cultura a cultura e che li rende non uguali sul piano dei diritti umani, come nel caso delle Mgf.

Ma c'è di più. Insistere su questa linea interpretativa che fa delle Mgf un mero fatto culturale può rendere assai improbabile la loro eliminazione, dal momento che condiziona le policy da adottare. L'altra idea che circola è infatti quella che vede la soluzione al problema delle Mgf in forme di intervento che mirano a innalzare il livello di informazione e di educazione delle donne africane. Se senza dubbio informazione e programmi educativi possono fare molto, da sole non sono però in grado di eliminare un habitus così radicato e diffuso nel corpo sociale. Le campagne di informazione contro le Mgf promosse sia da organismi internazionali sia da alcuni governi locali sono state una forma di intervento che ha avuto degli effetti positivi nei confronti di alcune élite, ma che hanno avuto risonanze molto più scarse nei ceti popolari e nelle popolazioni rurali.

Simili aspettative non sono però solo l'espressione di una ottocentesca pedagogia sociale che ignora le maniere complesse e contraddittorie in cui si trasformano le società, e soprattutto come cambiano contesti quali quello africano che sono sottoposti a spinte contraddittorie, dove ogni innovazione si trova a dover fronteggiare l'inerzia di un tessuto tradizionale radicato da sempre nei comportamenti e nelle abitudini delle persone. Sono anche il risultato di una visione parziale della funzione che le Mgf hanno nel sistema complessivo dei rapporti economici e sociali di tali società. Le Mgf non sono un fatto culturale ma, come si è cercato in qualche modo di illustrare, sono piuttosto un "fatto sociale totale" - per riprendere questa espressione di Marcel Mauss ormai desueta, ma dotata tuttora di grande capacità euristica. Fanno infatti parte di un sistema complesso di strategie matrimoniali fondate sul pagamento del "prezzo della sposa" che caratterizza le relazioni che costituiscono il tessuto sociale in gran parte delle società africane. Sono una componente intrinseca e tuttora indispensabile di una struttura economica-sociale che ha investito su di esse, sul potere delle Mgf di vincolare comportamenti e assoggettare persone.

È da qui che dobbiamo cominciare: rovesciando l'approccio. Si tratta di partire dai processi di cambiamento che hanno investito il continente africano e che si chiamano urbanizzazione, tribalizzazione, guerra, emigrazione, fondamentalismo islamico, ecc. e che hanno portato a un aumento della conflittualità e a una sua estensione a fasce e a gruppi sociali le cui identità e ruoli appaiono sempre meno suscettibili di essere definiti e regolamentati da forme tradizionali di potere e di controllo sociale. È in questo contesto che abbiamo cercato di impostare la questione delle Mgf per potere capire fino a che punto i loro margini di consenso risultino affetti da tali processi di cambiamento.

4. Acculturazione e transemigrazione

La nostra ricerca si inquadra dunque all'interno di questi nuovi scenari. In particolare ci siamo proposte di analizzare cosa succede delle Mgf in un contesto di immigrazione e cioè in una situazione che gli antropologi definiscono di "contatto tra culture" o di acculturazione, in cui si presume che una delle due culture finisca per influenzare l'altra.

Si tratta di uno degli aspetti meno indagati delle Mgf, su cui peraltro esiste ormai una vasta letteratura a livello internazionale. Ancora poco si sa delle dinamiche che nascono nell'impatto con una società occidentale e come queste possono modificare l'attaccamento delle donne africane a un'usanza che da tempo immemorabile ne ha regolato la vita.

Vivere in una società diversa dalla propria è un'esperienza che nostro malgrado ci trasforma o in un senso o nell'altro, e per quanti sforzi o difese si possa cercare di mettere tra sé e il nuovo contesto, tra i propri ricordi e un presente sradicato non si passa indenni attraverso l'emigrazione. Nonostante molte delle donne immigrate cerchino di restringere al massimo i contatti e le relazioni con una società che non conoscono e che le spaventa, questa società finisce prima o poi per catturarne l'attenzione, per imporre confronti e sollecitare delle scelte che non avrebbero mai pensato di dover affrontare.

Così è andata per alcune delle donne intervistate, per esempio per Ashao, una giovane somala di 31 anni, che ci ha detto: ´Non ha senso infibulare una donna. Io devo dire che prima di venire a Roma pensavo che se mai avessi avuto una figlia l'avrei operata. Adesso solo all'idea mi sento male. Non lo farei mai. E senz'altro questo cambiamento di idee è dovuto al fatto che dopo tanti anni che vivo qui mi sono resa conto di quanto sia inutile e dolorosoª. Non molto diversa è la posizione di Juliette, una nigeriana ormai stabilitasi a Roma con la famiglia, che alla domanda come mai non abbia circonciso la figlia ha risposto con una certa vivacità: ´Non vedo perché farlo, non è necessarioª.

Non sempre però succede così, non sempre il cambiamento va nella direzione che ci si saremmo aspettate, molto spesso sortisce esiti opposti, nel senso che l'incontro con una realtà diversa invece di stimolare un processo di trasformazione può provocare una chiusura all'interno della propria cultura, che viene vissuta come un rifugio per sottrarsi alla contaminazione e al contatto con modelli e valori estranei e come tali pericolosi.

Questo aspetto difensivo, retrattile è emerso soprattutto con le donne somale intervistate a Torino. Non sono state poche quelle che ci hanno confessato di essere arrivate a capo scoperto e in minigonna e di essersi poi coperte, sentendo il bisogno di ricorrere alla funzione protettiva del velo e di ritrovare con esso la propria cultura. ´Gli sguardi degli altri mettono a disagioª, ci ha confessato una giovanissima Marian. ´Per reazione ci si chiude ancora di più, per questo magari i genitori dicono "appena torniamo facciamo operare le nostre figlie, appena torniamo a casa mettiamo a posto tutto"ª. Secondo un'altra ´le immigrate diventano molto più religiose e tradizionali di quello che erano prima di partire, questo è dovuto molto spesso alla situazione di segregazione in cui molte di noi vivono, perché c'è molta disoccupazione. E poi sviluppano un atteggiamento negativo nei confronti della società italiana dove tutto è permesso. Hanno l'angoscia di come controllare le proprie figlie e la circoncisione è sempre per loro la maniera più sicuraª.

In questo rapporto conflittuale con il contesto di accoglienza le Mgf svolgono un ruolo molto importante, perché trasformano il corpo di ogni donna in un confine etnico, che scoraggia da entrambe le parti ogni possibile forma di integrazione e che anzi rafforza il senso di appartenenza e l'attaccamento alla propria etnia e alla propria nazione. Anche il velo risponde a questo stesso bisogno di suggellare il proprio corpo, di racchiuderlo all'interno di un confine simbolico come si è visto ad esempio in Francia dove la scelta delle ragazze islamiche di andare a scuola con il velo aveva a suo tempo suscitato polemiche e scandalo nella laica società civile francese. Nel caso delle Mgf la cosa è ancora più radicale, dal momento che sono i corpi stessi delle donne a funzionare simbolicamente come un confine inviolabile, tanto più potente quanto più segreto.

In tal modo il contatto con una società occidentale in luogo di indebolire, come ci saremmo aspettate, tradizioni e appartenenze a un mondo ormai lontano ha invece finito molto spesso per rafforzarle.

Ma forse quel mondo non è poi così lontano come può sembrare a prima vista. Oggi sono molto cambiati i modi di vivere l'esperienza dell'emigrazione, tanto che ormai si preferisce parlare di "transemigrazione". L'immigrante non è più una persona che sta per sempre e in maniera continuata nel luogo di approdo in cui si è venuto a stabilire, ma mantiene un rapporto ininterrotto e regolare con il proprio luogo di origine - a cui resta legato da una complessa rete di relazioni affettive, magiche, rituali, commerciali, burocratiche e di traffici di varia natura fatti di doni e di scambio di merci, in cui circolano a pari statuto manufatti locali o prodotti industriali, oggetti high tech come prodotti naturali. È un modo per non essere totalmente esclusi dagli eventi locali e dalle strategie familiari, ed è una risorsa per contare su riserve affettive, simboliche e materiali, ma è anche una strategia per graduare l'impatto con l'Occidente, stemperarne gli aspetti negativi e riuscire in qualche modo a governarlo.

Abbiamo ritrovato nelle donne intervistate sia somale che nigeriane questa stessa capacità di essere "qui" e "là" contemporaneamente, di mantenere una molteplicità e fluidità di legami con la propria società di origine che le tiene sempre aggiornate su quanto avviene a casa, di continuare insomma ad avere un rapporto vivo, attivo, fondato sull'attualità e non solo su un ricordo sepolto nel cuore che trova sfogo nella nostalgia e nel rimpianto. Sono due casi di transemigrazione, che le vede protagoniste di una doppia vita tra due società segnate da valori, mentalità, e modelli diversi e spesso tra loro incompatibili.

Questa scoperta di una doppia vita ci ha in un certo senso spiazzato. La nostra ipotesi di ricerca andava rivista; non ci è rimasto altro da fare che seguire l'altra prescrizione metodologica che ci eravamo proposte di osservare nel nostro progetto. Si trattava di ridefinire il nostro oggetto di indagine, spostare il focus della ricerca, una volta preso atto che i mutamenti che stanno interessando la pratica delle Mgf non sono sempre l'effetto di una situazione di contatto culturale o di un processo di acculturazione da parte della società di accoglienza - come inizialmente ci saremmo aspettate e come alcuni casi hanno confermato - ma che sempre più spesso sono il contraccolpo imprevedibile dei processi di cambiamento che travagliano il continente africano.

Questo ci ha imposto di rivedere la metodologia del nostro approccio. Il fenomeno della transemigrazione, ovvero la nascita di reti e spazi transnazionali, ci ha spinto ad abbandonare il modello bipolare, dominato da problematiche quali acculturazione, assimilazione, integrazione, sradicamento ecc. dove vengono del tutto trascurati i rapporti tra immigrati e contesto di partenza. Un modello che appare ormai inadeguato a cogliere la complessità delle variabili in gioco, dal momento che non si gioca più una partita a due tra immigrati e comunità di accoglienza, ma si tratta ormai di una partita a tre, dove il terzo è costituito dalla comunità locale di partenza con cui gli immigrati intrattengono un ciclo continuato di contatti, scambi e relazioni.

Abbiamo così cercato di capire quanto incida sulla pratica delle Mgf questo ininterrotto rapporto con la propria comunità. E da quanto è emerso dalle interviste ci è sembrato che abbia un ruolo fondamentale perché ´è sempre in Africa che si decideª, come ci ha detto una donna. Non solo per i concreti rapporti con i familiari che richiedono insistentemente se le bambine siano state circoncise, e se non lo sono ancora fanno pressioni perché ciò avvenga al più presto, magari con un viaggio in Africa. Ma soprattutto a livello dell'immaginario, un immaginario ossessivamente concentrato su quello che la propria gente potrà pensare o dire se un giorno decideranno di rimpatriare. È questo pensiero che spinge molte madri dubbiose a operare le proprie figlie per il timore che vengano emarginate una volta ritornate in Africa. Ed è questo stesso pensiero che interferisce nell'impatto delle donne immigrate con la società di accoglienza, e che le mantiene in uno stato permanente di diffidenza e di difesa preservandole da ogni influenza sui propri costumi e sulle proprie idee.

Abbiamo così deciso di prestare maggiore attenzione al rapporto intrattenuto dalle nostre intervistate con la propria comunità locale. E poiché la cosa è emersa in maniera vistosa nei nostri contatti con le somale, è dunque da loro che conviene iniziare.

5. Sunna, fondamentalismo e scuole coraniche

Nel corso dei nostri ripetuti incontri con alcune donne somale abbiamo cominciato a registrare una certa dissonanza nei loro discorsi che apparivano improntati a due opposti paradigmi: dogmatismo e problematicità, che invece di confliggere tra loro rimanevano giustapposti l'uno all'altro. Da una parte c'era la difesa a oltranza dei propri corpi infibulati - tutte in un modo o nell'altro si sono dichiarate contente di averlo fatto e pronte a rifarlo, a dispetto delle sofferenze patite - e dall'altra trapelava una presa di distanza dall'infibulazione, a cui ormai sembrano essere in molte a preferire la sunna, la più lieve delle Mgf.

In un primo momento abbiamo pensato che i modelli occidentali si fossero aperti una breccia nel loro compatto tessuto culturale, ma poi ci siamo rese conto che si trattava di tutt'altro e che al posto dell'Occidente il referente era piuttosto quanto sta oggi succedendo in Somalia tra guerra ed espansione del fondamentalismo islamico.

A metterci su questa strada è stato un giudizio sull'infibulazione che ritornava in maniera cadenzata come un ritornello in quasi tutte le interviste, sia a Torino sia a Roma, e che suonava pressappoco così: ´Non è la religione a farlo fare, ma è la culturaª, seguiva una breve pausa, a volte una certa esitazione e poi la frase veniva completata precisando che si trattava di ´una cattiva culturaª. Un'argomentazione non priva di finezza interpretativa, che cerca di scorporare la religione islamica dal precedente involucro di credenze e di rituali preislamici che hanno formato il terreno di coltura delle Mgf.

Dopo averla sentita ripetere tante volte e soprattutto da persone che non si conoscevano tra loro abbiamo capito che dietro questa formula imparata a memoria c'era un insegnamento, che aveva ormai assunto la forza di uno stereotipo, e dietro di esso c'era il fondamentalismo islamico, che proibisce l'infibulazione e prescrive di sostituirla con la sunna. Ovvero c'era la Somalia con le sue vicende recenti, c'era un tessuto sociale che sta cambiando, da cui ci era arrivato quel debole segnale.

In Somalia con il vuoto di potere creato dalla guerra la scena è ormai sempre più occupata dall'ingombrante presenza del fondamentalismo islamico che sta prendendo il posto del vecchio clero tradizionale e sta ristrutturando comportamenti e percorsi di vita secondo modelli improntati a una rigida osservanza dottrinaria. È stata infatti la guerra ad aprire le porte al fondamentalismo islamico. Nel corso degli ultimi anni del regime di Siad Barre si erano già manifestati i primi segni di una ripresa religiosa, con l'accresciuta partecipazione del popolo alle celebrazioni delle maggiori feste musulmane. Ma il primo atto ufficiale è venuto dal Somaliland, con l'imposizione della legge islamica da parte del nuovo governo, insediatosi all'indomani della secessione della Somalia del nord dal resto del paese. Da allora l'integralismo islamico si è diffuso in tutto il paese riuscendo a costituire, nel vuoto di potere creatosi con la guerra, un punto di riferimento fondamentale. O, come ci ha spiegato una donna appena tornata dalla Somalia, la religione è l'unico legame che in un paese ancora così diviso unisce tutti.

Il fondamentalismo viene dall'Arabia Saudita, dal Kuwait e dagli Emirati arabi (Eau) ed ha esteso la sua influenza non solo ai religiosi locali, di cui peraltro è riuscito a rafforzare il prestigio, ma a tutte le fasce sociali, in particolare ai commercianti, che sono stati aiutati da una politica creditizia in loro favore attuata dalle banche islamiche. Ha una strategia di islamizzazione dal basso, che punta sull'individuo. Una penetrazione a livello della vita quotidiana e dell'agire individuale, che tende a orientare in senso normativo regolamentandone i percorsi di vita secondo modelli improntati a una rigida osservanza dottrinaria e basati su una fitta rete di interdizioni e di tabù.

Stando a quanto ci è stato descritto da molte intervistate, è in atto in tutta la Somalia una campagna capillare condotta dal nuovo clero fondamentalista, che ha tratto vantaggio dalla situazione di paralisi del paese in cui la maggior parte delle istituzioni non sono in grado di funzionare. Uno strumento importante della sua diffusione è costituito dalle scuole coraniche che sono state aperte da Ong arabe e sono organizzate su una rigida separazione tra maschi e femmine, le quali vengono espulse con la comparsa del menarca perché non sono più pure. In mancanza di altre scuole la gente è ben contenta di mandarvi i propri figli, tanto più che sono gratuite e spesso danno anche un aiuto economico alle famiglie in denaro o in beni di consumo alimentare.

Ma nonostante siano sempre più numerose le aree in cui si sta diffondendo l'applicazione della Shari'a - il nord del paese è ormai quasi tutto controllato dalla milizia islamica e a Mogadiscio c'è un settore della città in mano loro - non c'è stato dappertutto quel seguito che ci si aspettava dato che in molte parti è ancora forte l'influenza dei religiosi tradizionali locali, che non gradiscono la presenza del clero fondamentalista formatosi in Arabia Saudita e il loro progetto di re-islamizzare la Somalia. ´C'è ancora una grossa percentuale di tradizionalistiª, come ci ha spiegato una delle nostre intervistate, ´gli integralisti non sono la maggioranza, ma possono comportarsi da maggioranza perché hanno i soldiª.

Tra queste due correnti dell'Islam ci sono forti contrasti. Una giovane appena tornata dalla Somalia ci ha raccontato della recente controversia che c'è stata a Merca sul giorno della settimana in cui iniziare il Ramadan, che per i religiosi sauditi doveva essere il sabato, mentre il clero locale insisteva per celebrarlo il venerdì come tutti gli altri anni. In realtà in questo caso come in altre occasioni il vero oggetto del contendere è la tradizione, che gli uni difendono e gli altri vogliono cambiare per affermare la propria egemonia. In questo braccio di ferro è il corpo femminile che rischia di diventare la vera posta in gioco di uno scontro tra due diverse fazioni: la tradizione musulmana locale e la corrente integralista dell'islamismo contemporaneo. Tra chi difende l'infibulazione e chi vuole alleggerirla e sostituirla con la sunna.

Il clero fondamentalista cerca infatti rinviare al mittente, ossia alla cultura tribale, la sua pesante eredità, insistendo che l'infibulazione non rientra in alcuna prescrizione religiosa, ma appartiene al tessuto culturale preesistente all'arrivo dell'Islam. Al momento della sua penetrazione in Somalia il fondamentalismo islamico ha dovuto infatti confrontarsi con un problema non facile: come rimanere fedele alla tradizione tribale locale e rispettare la propria vocazione all'universalità. Secondo i religiosi impegnati a filtrare i costumi locali per depurali da tutte quelle scorie che niente hanno a che vedere con l'ortodossia delle pratiche religiose musulmane, nel Corano non c'è traccia dell'infibulazione. La loro posizione è chiara: trattandosi di un costume tradizionale, di una pratica culturale che non ha alcun riscontro nella religione islamica l'infibulazione va proibita e sostituita con la sunna, di cui si trova invece menzione nel Corano.

Il fondamentalismo islamico è arrivato dopo che la guerra aveva lacerato il tessuto tradizionale, questo gli ha reso più facile radicarsi nella vita delle persone, la sua efficacia è dovuta a una strategia di penetrazione dal basso che ha scelto di parlare al cuore e alla fede della gente facendo leva su appartenenze consolidate. Questa strategia sembra ormai vincente, se nel giro di pochi anni è riuscita anche a problematizzare i quadri di riferimento delle donne immigrate, che ormai si trovano a dovere scegliere tra la propria osservanza religiosa e una tradizione che fino a poco tempo fa ne ha segnato i corpi e le vite. Scelta non facile e soggetta a oscillazioni, ma quasi sempre l'osservanza religiosa sembra avere la meglio sulla fedeltà alla tradizione.

È una scelta delicata che interviene nei rapporti tra madre e figlie. Più di una volta ci siamo sentite dire, come da Kadigia, una donna di 27 anni immigrata a Torino, ´adesso mia madre è pentita. Adesso mi dice "perdonami per quello che ti ho fatto, ma prima tutti lo facevano. Prima la cultura era forte, ora è stata distrutta"ª. Anche Amina, 32 anni pure lei immigrata a Torino, ci ha detto ´sono cominciate in Somalia delle manifestazioni contro queste cose [l'infibulazione]. Mia madre dopo mi ha chiesto perdono, perché è una cosa contraria alla religione. Adesso si sono ammodernati. Prima c'era ignoranza. È per rispettare la tradizioneª.

Sono figlie che hanno perdonato dunque, ma il problema resta, nel senso che si è prodotto uno scarto tra le generazioni che può sia delegittimare l'autorità delle madri, sia segnare una maggiore autonomia delle figlie a seconda di come evolverà il processo di cambiamento.

E qui si apre un'incognita su quale sarà in futuro la situazione delle donne somale. Perché se da una parte fare la sunna renderà la loro vita meno difficile e dolorosa, anche se non significa la fine delle Mgf - non tanto a livello fisico dove l'intervento è ridotto al minimo, quanto a livello simbolico perché è sempre la manomissione del corpo a segnare il passaggio di status - per il resto i sostenitori dell'ortodossia fondamentalista non si limiteranno solo a mettere al bando l'infibulazione. I timori che affiorano nei discorsi delle intervistate è di vedere restringere i propri margini di autonomia a seguito dell'imposizione della legge islamica. In concreto questo intervento disciplinare sui loro corpi potrebbe annunciare una serie di limitazioni della loro libertà di movimento - come l'espulsione dagli studi, l'imposizione del velo, l'esclusione dai luoghi pubblici - cui le somale non sono abituate. Un attacco contro le donne che sta già suscitando tra le nostre intervistate qualche inquietudine, come si vede da questi primi disordinati commenti, raccolti a caldo nel corso di un focus group, che riportiamo testualmente.

Aman: ´Vogliono fare come in Iran dove le donne sono senza lavoro. La società somala Baracat che fa telecomunicazioni, telefonia, video è la società più grossa (miliardi di dollari) con a capo un signore che ha studiato nei paesi arabi, e sta in società con colleghi degli Emirati arabi. Baracat accetta i soldi dalle donne per comprare azioni, ma sempre tramite l'uomo. Le uniche donne che lavorano sono le addette alla sicurezza e alle pulizie. Le accettano ma devono coprirsiª.

Amina: ´In Arabia se una donna ha un ciuffo di capelli fuori del velo la picchiano. Ma un buon musulmano non costringe una persona a fare quello che non vuole. Solo Dio può punirti, tu non puoi andare a picchiare le donne in giro. Tutto questo loro lo fanno per prenderti per il sedere. La religione musulmana è bellissima, se uno ti parla ci discuti, poi a te la scelta di prendere o no quello che dice, ma non può dirti come è successo a me "io non parlo con te perché sei scoperta". Una volta durante il Ramadam io mi sono messa il chador e sono andata fuori e quelli che prima non mi salutavano mi hanno detto "congratulazioni Amina"ª.

Aman: ´A differenza degli iraniani, i somali sono molto legati alle tradizioni, non accettano di cambiarle tanto facilmente, quando è troppo è troppoª.

6. Guerra e cambiamento

All'origine dei profondi mutamenti che si sono verificati in Somalia negli ultimi dieci anni c'è stata la guerra, una guerra che assieme al regime di Siad Barre è intervenuta a fare saltare equilibri e stili di vita radicati da secoli, innescando una catena di eventi quali l'emigrazione e il fondamentalismo islamico che stanno alterando le abitudini e i comportamenti delle somale.

La guerra è sempre stata un fattore di innovazione, che sovverte un ordine e crea le condizioni per una riorganizzazione su basi diverse della convivenza sociale. Molto spesso è stata il veicolo per avviare processi di emancipazione di ceti e gruppi sociali svantaggiati. In più di un caso è stata l'occasione perché si realizzasse un cambiamento radicale della posizione delle donne nella società, sia sollecitando una presa di coscienza della loro emarginazione che le mettesse in grado di rinegoziare ruoli e status, sia avviando una trasformazione del tessuto sociale che ne favorisse una diversa collocazione rispetto al passato.

Accade però che a volte tali trasformazioni restino legate al regime di guerra e che a guerra finita tutto torni come prima. È successo alle donne algerine, che dopo aver combattuto a fianco degli uomini durante la guerra di liberazione sono poi state rimandate a casa. Non molto diverso è quello che è accaduto alle donne eritree durante i lunghi anni della guerra di liberazione condotta contro l'Etiopia tra il 1970 e il 1991, in cui costituirono il 30 per cento delle reclute. Un periodo durante il quale le eritree sono riuscite a conquistarsi notevoli margini di emancipazione fino addirittura a far sospendere le Mgf e il matrimonio combinato dalle famiglie, tutte conquiste che si dissolsero al termine della guerra con il ritorno a uno stile di vita tradizionale.

In Somalia la situazione è ancora troppo instabile per capire come evolverà. Al momento non c'è un governo e anche se le armi tacciono il paese è ancora caratterizzato da un regime di divisione e di bande armate. In questa situazione dove a dettare legge sono i signori della guerra non c'è posto per le donne né per le loro rivendicazioni. Le notizie che provengono dal paese sono a abbastanza contraddittorie.

Ci sono due diverse interpretazioni sul ruolo che la guerra ha avuto nei confronti delle Mgf. La guerra ha fatto perdere di consistenza alle pratiche simboliche del tempo di pace, ma nello stesso tempo le può anche avere rafforzate magari trasformandole. Per alcune delle intervistate la guerra ha portato a una diminuzione delle Mgf per ragioni di ordine pratico, direi quasi di sopravvivenza: in regime di guerra, dove sono stati sospesi o travolti i ritmi quotidiani e dove la vita è a rischio per migliaia di persone non vi sono margini per pratiche rituali. Soprattutto secondo Aman, ´durante la guerra non sono state fatte infibulazioni perché non ci sono soldi né tempo. Per la situazione in Somalia oggi costa troppo. Bisogna pagare la donna che fa l'operazione, le spese per la cura. Poi c'è il pranzo, bisogna offrire bibite, biscotti a chi viene a fare visita e a festeggiare per tutta una settimanaª. Ma anche per le difficoltà materiali di farlo, di trovare le operatrici: e infatti si registra un aumento del rischio per le donne che partoriscono. C'è il caso raccapricciante raccontato da Hamdi di una madre e del suo bambino morti durante il parto perché non si è trovato nessuno che la potesse de-fibulare e la aiutasse così a partorire.

Secondo altre, visto che con gli eserciti e le bande armate aumenta il rischio di stupro, la guerra ha giocato a favore dell'infibulazione. Non dimentichiamo che l'infibulazione è come una cintura di castità che deve preservare dalla violenza sessuale le ragazze in un regime di vita nomade dove passano le loro giornate da sole fuori con gli animali. Le madri sono tranquille solo dopo che le figlie sono state infibulate e messe così in grado di arrivare pure al matrimonio. Un giovane immigrato somalo di vent'anni ha paragonato l'infibulazione a una chiave per chiudere una stanza quando uno se ne va, e per riaprirla quando vuole. Un paragone efficace se non fosse sconfortante perché viene da un ragazzo che vive da più di dieci anni in un paese occidentale senza che questa nuova situazione abbia minimamente inciso sulla sua mentalità. Del resto, come si è visto, nemmeno la mentalità delle madri è cambiata molto, anzi il senso di insicurezza che dà loro una società come quella italiana che non riescono a controllare le spinge a desiderare di operare le figlie per metterle così al sicuro da un modo di vivere troppo permissivo.

Ma c'è un altro motivo che ci fa pensare che con la guerra non si è mai smesso di infibulare e ora di fare la sunna. Ed è un vuoto da riempire, un bisogno di riferimenti certi e di appartenenze che non è più garantito da nessuna istituzione. Nell'emergenza somala può accadere che pratiche tradizionali come le Mgf possano caricarsi di un valore simbolico aggiuntivo in grado di ridare senso a un'identità nazionale in forte crisi. In una situazione di diaspora come quella della Somalia di oggi le Mgf tornano a rappresentare quel confine etnico che la guerra ha cancellato, contribuendo alla costruzione di una "comunità immaginata", di una nazione somala ancora unita e sovrana.

7. L 'emigrazione: donne somale a Torino e a Roma

La maggior parte delle somale da noi intervistate sono persone in fuga, donne costrette a scegliere la via dell'emigrazione perché appartenenti a un clan a rischio o per sopperire ai bisogni della famiglia rimasta in Somalia, dove la vita quotidiana è ancora molto precaria.

Hanno età diverse: qualche giovanissima e alcune anziane, mentre la maggior parte ha tra i 30 e i 40 anni. Solo poche di loro - le più ricche e fortunate - vivono in Italia con marito e figli, le altre sono quasi tutte donne sole. Donne sacrificate, destinate a passare gli anni migliori della loro vita in un paese straniero, nubili, vedove o divorziate con scarse probabilità di arrivare a un matrimonio, che resta tra le loro aspirazioni più forti. Provengono tutte da aree urbane, soprattutto da Mogadiscio o da Merca, hanno un alto livello di scolarizzazione, ma sono quasi tutte collaboratrici domestiche o prestano assistenza presso anziani; solo alcune svolgono un'attività più adeguata al loro curriculum scolastico in alcune istituzioni pubbliche e private.

Conducono tutte una doppia vita, una vita che si divide tra il lavoro segregato in interni domestici abitati da signore borghesi o da anziani disabili e il fine settimana trascorso in un appartamento affittato assieme ad altre quattro o cinque amiche. Tanto a Roma che a Torino tutte le somale da noi contattate sacrificano una parte del proprio salario pur di avere un luogo in cui rifugiarsi per poche ore tra sabato e domenica e potersi sentire a casa assieme a persone che parlano la stessa lingua, mangiano gli stessi piatti, festeggiano ricorrenze comuni e si scambiano informazioni su quello che succede in Somalia. Non appena si varca la soglia di una di queste abitazioni si prova l'impressione di essere arrivate in un altro paese. Lo spazio della casa ha subito una metamorfosi che ci rimanda a un altro modo di abitare e di vivere: finestre schermate da tende o da persiane che filtrano la luce del sole e proteggono da sguardi indiscreti, per terra addossati alle pareti materassi e cuscini ricoperti da stoffe esotiche su cui accoccolarsi per parlare o mangiare e poi, appartata, la stanza della preghiera piena di tappeti dove cinque volte al giorno a ore fisse ognuna si ritira a turno per pregare e prostrarsi in direzione della Mecca.

È in queste case - in questo spazio e questo tempo sospesi - che si sono svolti i nostri incontri, sedute per terra su comodi cuscini a parlare, mentre la nostra conversazione seguiva a ritmi alterni un doppio registro: il passato in Somalia e il presente in Italia.

Sul passato, in particolare su quanto riguarda l'esperienza dell'infibulazione, i loro racconti non erano molto diversi da quelli fatti da altre donne in Somalia, si soffermavano più o meno sugli stessi temi: l'attesa, l'intervento, la sofferenza, la festa, il menarca, la prima notte di nozze, il parto. Una sequenza da brivido, almeno per noi che ascoltavamo questi racconti in presa diretta per la prima volta. Perché altro è leggerli e altro è sentirne parlare da chi c'è passato e percepire nelle parole, nelle esitazioni o nelle pause del loro racconto una carica emozionale che gli anni non hanno spento. È un evento che il ricordo ha sottratto al tempo per congelarlo in una dimensione metastorica, destinata a costituire lo schermo opaco delle loro vite da cui tutto - dolore, rispettabilità, piacere, salute, matrimonio, figli - sembra avere ricevuto la sua ragione di essere.

Scelgo quattro testimonianze: di donne di età diverse, provenienti da diversi contesti, urbano, rurale, paesano. È diverso anche il modulo narrativo: nelle prime tre prevale una visione dall'interno, un approccio intimista che si sofferma sul dolore, la paura l'emozione, i sentimenti, la quarta è invece una descrizione in presa diretta senza commenti.

Fauziya, 35 anni, è nubile, vive da tempo a Roma:

´Sono stata circoncisa a 7 anni, in casa, assieme alle mie due sorelle più piccole. Sono stata operata da una signora con un rasoio, da allora ogni volta che vedo un rasoio mi sento male. Mentre venivo operata mia madre se ne stava fuori, perché non sopportava di vedere, anche se è lei che aveva deciso e organizzato di farlo. Non tutti fanno la circoncisione nello stesso modo, noi abbiamo fatto tutto.

Ogni persona che opera lo fa con due rasoi, perché il primo rasoio diventa pieno di sangue per cui non vedi abbastanza mentre operi e allora usi quell'altro. Mi hanno messo del giallo d'uovo assieme a un'altra sostanza per suturare e calmare il dolore, e mi hanno legato le gambe per 7 giorni. Poi sono guarita. Il primo giorno fare pipì era molto doloroso. Il foro si è poi un po' allargato con le mestruazioni.

L'operazione si è svolta alle 6 di mattina. Dopo hanno sgozzato tre pecore perché erano state circoncise tre ragazze. E hanno fatto un grande pranzo. Gli invitati hanno portato regali a noi bambine che ce ne stavamo distese in terra: cioccolato, caramelle, ecc. Non si può bere perché fare pipì brucia. Mi ricordo che ho fatto pipì alle due del pomeriggio piangendo. Il posto dove stavamo a casa di mia madre era senza pavimento, mia madre ha scavato una buca in terra e in questa buca ha fatto un fuoco su cui mi sporgevo esponendovi la parte operata per fare asciugare la feritaª.

Fatima, 42 anni, dal 1992 a Torino:

´Sono stata circoncisa a 7 anni assieme a mia sorella di 9. Altro che festa! Quel giorno ho subito quello che non dimenticherò mai. Sono stata operata senza anestesia, senza niente, ho sofferto moltissimo. Eravamo sette ragazze (dai 6 ai 9 anni), c'erano le figlie dei vicini, nel periodo di chiusura delle scuole. Le donne vicine hanno detto "facciamo quello che dobbiamo fare perché le ragazze sono ormai diventate grandi". Soprattutto mia sorella perché mia madre aveva rimandato l'operazione. Hanno chiamato una signora anziana e siamo state operate in una casa vicina. Ha cominciato dalla più piccola. Abbiamo visto fare e quindi avevamo tantissima paura e piangevamo.

La mamma è scappata perché non voleva sentire i nostri pianti. Mi hanno messo su un tavolo grande nuda e tre donne mi tenevano le mani e i piedi legati. Non vedevo perciò non so bene con cosa l'hanno fatto, se con una forbice o con un coltello. Loro si nascondono quando lo fanno, perché siamo già in un periodo di critica. Mi hanno tagliato la clitoride e le piccole labbra. Poi sono stata cucita con il filo perché eravamo in città, non con le spine come in campagna. È stata una sofferenza continua per sette giorni. Sono stata con le gambe legate per 14 giorni dalla vita fino a sotto le ginocchia. Non si può mangiare. Io ho fatto pipì, mia sorella è stata tre giorni senza fare pipì, le si è gonfiata la pancia. Ha sentito più dolore perché era più grande. Io ho tremato per tre giorni, meno male che è riuscito bene.

Dopo ognuno ha portato a casa le sue bambine, e la mamma è poi tornata a casa. Mamma e papà una volta guarite ci hanno fatto dei regalini, ho avuto un paio di orecchini d'oro: poi ne ho perso uno a scuola. Ma con quello che ho avuto non basterebbero gli orecchini né tutto l'oro del mondo. Non abbiamo avuto infezioni perché papà ci portava la tintura di iodio e gli antibiotici. C'è altra gente con minore pulizia che si prende le infezioni. Padri poliziotti e impiegati sono più civili di quelli dei villaggi.

Prima dell'operazione correvo, giocavo a pallone, ma dopo non l'ho potuto più fare. Mia mamma mi diceva stai attenta, sei diventata grande. Io continuavo un po' lo stesso a farlo, ma la mamma mi diceva stai attenta, ti strappi. Non è come prima. Prima ero libera, adesso no. A 16 anni sono rimasta 24 ore senza fare pipì, mi hanno portato in ospedale dove mi volevano tagliare per mettere sonda, ma poi è passato con delle pastiglie.

Mi hanno lasciato un buco moltissimo stretto, prima del contatto con l'uomo le mestruazioni erano molto dolorose. Tremendo. Quando mi sono sposata il rapporto fa schifo, le prime volte. Dopo va meglio, perché è un po' aperto. Mi ha tagliato lui con la forza [della penetrazione]. Doloroso, mamma mia, non ti posso neanche dire. Dopo due mesi le cose sono state un po' più normaliª.

Sahru, 29 anni, da un anno a Roma:

´Sono stata cucita a 7 anni. Ho provato tanto dolore. Eravamo sei bambine, è venuta un'infermiera, c'era mia madre, anche adesso se ci penso mi viene da piangere. Sono rimasta 15 giorni a letto, mi hanno legato le gambe in tre punti, non potevo camminare bene. Il primo grosso problema è stato fare la pipì, friggeva, friggeva.… Ho avuto dolori per una settimana, dopo basta, mi hanno dato l'aspirina e molte altre medicine. Ho ricevuto regali: un vestito e degli orecchini, però mi ha veramente fatto tanto male. I vicini e i parenti mi venivano a trovare e mi dicevano "brava, brava".

La prima notte di nozze ho provato tanto dolore, più forte del piacere c'era il dolore. Per tre giorni non ho mangiato. Subito dopo il matrimonio non si esce per una settimana, al marito serve una settimana per aprirla bene e godere. Dopo questa settimana c'è un'altra festa, ti mettono il foulard e sei diventata una signora, ti portano anche i regali, soprattutto la madre di lui. Al nord viene una donna ad aprire, invece da noi lo deve fare il marito, hanno calcolato che ci vuole una settimana.

Sei mesi dopo il matrimonio sono rimasta incinta, avevo nausea, non mangiavo. Ho partorito in un clinica privata, una bambina, sono stata aperta, anche in basso. Dopo sono stata ricucita, ma non tutta. Sono rimasta in casa 40 giorni, non potevo toccare niente, neanche mio maritoª.

E infine il racconto di Basma, una bella donna di 47 anni, da molti anni a Roma, che sarebbe pronta a rifarlo, che l'ha già fatto alla figlia e che lo vorrebbe fare alle nipoti:

´Sono stata circoncisa a 6 anni assieme ad altre due bambine, dopo è stata fatta una festa, mi hanno regalato molte caramelle dolci. Tre giorni prima della cerimonia invitano tutti. Al mattino presto vengono i vicini e i parenti stretti per vedere e portano regali.

Mi hanno legata alle gambe di una donna grossa che teneva le gambe aperte tenendomi nel mezzo. Ti bendano gli occhi con un foulard nuovo che viene poi regalato alla donna che mi ha tenuto legata. Il foulard si chiama shash e anche quando ci si sposa al settimo giorno si indossa il shash come segno che una è sposata. Mi hanno operato senza anestesia, venti anni fa hanno cominciato a fare l'anestesia e a operare su un tavolo, si sono civilizzati, chiamano anche una ostetrica.

Sono stata cucita con le spine. Mi bruciava. Si fa una buca per terra e si fa pipì stando sollevata di lato. Mamma mi ha lavato con acqua calda. Nella buca si mette della carbonella e delle erbe che fanno fumo in modo che ti mettono sopra per disinfettare e seccare la cucitura che diventa scura. Ho avuto un'infezione perché mi grattavo la ferita, e sono stata male per un mese con la febbre, sono stata medicata dal dottore. Solo io ho avuto l'infezione, ero la più piccola, le altre due avevano 7 e 8 anniª.

Racconti di donne, pezzi di vite, narrate con intensità, ma rese più drammatiche dalla prospettiva da cui queste donne si guardano indietro, la prospettiva dell'emigrazione: carica di umori, di nostalgie per la propria terra, ma anche di insofferenza nei confronti del muro di indifferenza o di incomprensione che le circonda. Spesso il loro sguardo sul passato riflette le tensioni del presente e a volte ci ha fatto capire molto sul tipo di rapporto che si è venuto a creare con la società di accoglienza.

Ce ne siamo rese conto per la prima volta durante un focus group a Torino cui hanno partecipato nove donne somale, tutte rigorosamente infibulate, tranne una giovanissima che aveva fatto la sunna. Non appena siamo arrivate a parlare dell'operazione, è scattato qualcosa. A cominciare è stata Amina, una giovane donna molto coraggiosa: ´Sono stata contentissima quando me l'hanno fatto e sono ancora contentaª. ´Si anch'io sono contentaª, ha aggiunto Faduma, cui si sono subito unite Zenab, ´Sono stata contenta di averlo fattoª, e Asli: ´Contentissima anch'io. Non ho avuto nessun problemaª. Affermazioni secche, assertive, prive di quella problematicità che era invece emersa nel corso delle interviste dove ognuna si era soffermata sugli aspetti dolenti di quella esperienza.

Senza dubbio in un focus group le cose vanno in maniera diversa da come vanno in un'intervista a due, più pensata, più controllata, dove si tiene conto nel rispondere anche delle possibili aspettative dell'interlocutore. Nei focus group che si basano su un modello di catene associative si viene spesso a creare un stato di effervescenza collettiva che favorisce una maggiore spontaneità espressiva e un'interazione più libera tra le persone che vi partecipano. Per cui le cose dette lì sono un indice importante per sapere come la pensa veramente una persona.

Ma quello che ci ha colpito è stato soprattutto il tono di sfida con cui si erano espresse. Sfida nei confronti di chi? ci siamo poi chieste. Improbabile che fosse nei nostri confronti, ci conoscevamo appena e soprattutto la loro animosità sembrava diretta a un interlocutore molto più familiare di noi. Avevano piuttosto l'aria di stare giocando una partita ravvicinata a due tra un "noi" e un "loro", tra "noi somali" e "loro torinesi", dove la posta in gioco era rappresentata dalla riconferma della loro appartenenza etnica attraverso la valorizzazione del proprio corpo. Quello cui avevamo assistito non era dunque altro che un episodio tra i tanti che segnano le complesse dinamiche di contatto tra culture, dove significati, identità, memorie, rappresentazioni del noi e riconoscimento dell'altro vengono continuamente rinegoziati tra i due partner con alterne vicende e fortune.

Il rapporto tra immigrati/e e italiani/e non è però lo stesso dappertutto sul territorio nazionale, ma appare soggetto a fluttuazioni locali che rendono per molti aspetti assai diversa per uno stesso gruppo etnico l'esperienza dell'immigrazione.

A Torino la condizione delle donne somale ci è sembrata più difficile che a Roma. Eppure Torino offre in termini di strutture di accoglienza assai più di quanto non faccia Roma, dove l'impatto è più casuale e meno organizzato, ma dove forse c'è una maggiore apertura e tolleranza. Non credo però che tali tensioni dipendano solo dal riserbo e dalla chiusura della società torinese, mi paiono da ascrivere anche al fatto che a Torino la comunità somala nel suo complesso sembra molto più strutturata, nonostante sia attraversata dalle stesse divisioni tra clan rivali che travagliano la Somalia. C'è un senso più forte della propria appartenenza etnica e comunitaria a cui ha molto contribuito la presenza di una personalità carismatica come quella dell'Imam Abdirashid che è riuscito ad aprire in breve tempo cinque moschee e una scuola coranica, e quindi c'è una maggiore richiesta di riconoscimento.

8. Incomprensioni

La cosa che offende le donne somale a Torino come a Roma è che si parli dei loro corpi. Una volta qualcuna ha cercato di farcelo capire: ´Per noi è una cosa segreta, un tabùª, ci ha detto Maruim. ´Io non parlo sempre di sesso come fate voiª. Ma quello che le disturba di più sono gli stereotipi che circolano sull'infibulazione e soprattutto la presunzione degli italiani e in genere degli occidentali di volerle liberare da un costume che sono convinti sia loro imposto con la forza o con l'inganno. ´Odio tutto il can can che si fa quiª, ci ha detto una delle donne più impegnate sul fronte della lotta alle Mgf, ´se ne parla sempre in modo superficiale da parte di persone che non sanno niente, e ogni volta in termini di donne come vittime che devono essere salvateª. Ed è difficile darle torto, tanto più che quando abbiamo chiesto a ognuna di loro di ricordare quel giorno lontano in cui era stata svegliata all'alba dalla mamma e portata in un luogo appartato per essere operata, non c'è stata una che non ci abbia detto come era felice che fosse finalmente arrivato il suo momento.

Ecco alcune delle loro risposte che possono aiutarci forse a capire quanto poco la loro esperienza corrisponda all'immagine che se ne è fatta l'Occidente.

Zenab: ´Mio padre non voleva perché era un uomo istruito, aveva studiato il Corano. Io però ero decisa, ho pianto una settimana per farlo, non ho mangiato. Sai, le mie compagne mi dicevano "sei una puttana se sei aperta, facci vedere". Non sono voluta più andare a scuola perché mi chiedevano "quando lo fai". Io l'operazione l'ho pretesa, costi quel che costi. Mio padre ha detto "va bene" e io sono andata in tutto il quartiere casa per casa a dire "me lo fanno domani"ª.

Amina: ´Le altre bambine ti inseguono e ti dicono puttana. Allora tu devi rispondere "io non sono una puttana", ti tiri su le gonne e lo fai vedereª.

Fatima: ´Mio padre non voleva tanto che lo facessimo. Ci sono due tipi, una più facile che si chiama sunna e l'altra più difficile che si chiama faraonica. Mio padre aveva detto "se proprio lo volete fare fate la sunna". Ma la mamma ha voluto che facessimo quella più difficile. È stata costretta dall'ambiente, dalla società che crede che sia una cosa della religioneª.

Asli: ´Io ho insistito che volevo farlo con le mie sorelle. Mio padre soprattutto non voleva, fuori della porta gridava "chi tocca mia figlia l'uccido"ª.

E poi c'è il caso di Maruim, di cui abbiamo già parlato, una ragazza proveniente da una famiglia contraria alle Mgf, che si è organizzata da sola l'operazione: ´Sono stata io a insistere per volerla fare. A sette anni tutte le mie amiche erano infibulate, mi vergognavo da morire a dire che non lo ero. Tremavo quando veniva fuori l'argomento, avevo paura che mi chiedessero di far vedere. Ho convinto mia madre a fare almeno la sunnaª.

E infine Hasha, 44 anni, da molti anni in Italia: ´Sono stata circoncisa da grande, avevo 7 anni. Andavo alla scuola coranica e tutte le mie amiche mi chiedevano sempre se l'avevo fatto e io mi vergognavo di non essere circoncisa. Chiedevo sempre alla mia sorella grande di farlo lei. Ma lei diceva che doveva farlo la mamma. Ma la mamma stava in un'altra città e io non potevo continuare a giustificarmi con le altre ragazze perché non ero circoncisa; ero stufa di aspettare un evento che tutte aspettano. Così la mamma non è stata avvertita perché io non volevo più aspettare e sono stata portata da mia sorella all'ospedale dove è stato fatto con l'anestesia. Non ho fatto l'infibulazione ma una cosa più leggera, mi hanno tolto la clitoride e le piccole labbra. Dopo hanno chiamato la mamma che è arrivata con i regali per me e ha fatto sgozzare un agnellino per fare festa con i vicini di casa. Mamma si sentiva in colpa perché non era stata presente. Sono stata molto fiera di averlo fatto, dopo ti senti donna. Uno si sente importante, mentre invece si sente inferiore se non l'ha fattoª.

In queste dichiarazioni, fatte da donne di età e di estrazione sociale diverse, ci sono almeno tre cose che saltano agli occhi. La prima è il carattere volontario dell'operazione, la seconda sono le motivazioni che inducono a farla, la terza è la posizione negativa dei padri nei confronti dell'infibulazione della propria figlia.

Cominciamo dalla prima: ognuna ha rivendicato il proprio ruolo di soggetto che decide in maniera automa sul proprio corpo e sul proprio destino di donna. Da questa compatta presa di posizione si capisce che le cose sono molto più complesse di come se le rappresentano gli occidentali che vedono solo uomini nel ruolo di carnefici e donne in quello di vittime. Un'interpretazione ingenua che si basa sull'ipotesi di una relazione elementare di comando/obbedienza e che come tale non spiega l'alto indice di consenso di cui godono le Mgf a cominciare proprio da parte delle dirette interessate.

La verità è che sono le donne a farlo (le madri) e sono le donne (le figlie) a volerlo. E non per masochismo o sadismo, ma per la forza di alcune costrizioni sociali - e siamo al secondo punto, le motivazioni - che esercitano una pressione a cui, come si è visto nelle interviste, è difficile anzi impossibile sottrarsi. Alla base c'è un precetto morale - essere pure, che in concreto vuol dire essere infibulate e cioè chiuse, incontaminate, pulite - che viene attuato attraverso una forma capillare di controllo sociale esercitato in maniera pesante e pressante sia sulle bambine sia sulle madri da parte di familiari, parenti, amici, vicini, a cominciare dalle implacabili compagne di scuola. La posta in gioco è alta: si tratta di essere accettate e riconosciute come membro della comunità mentre a fare da deterrente è lo spettro di un'emarginazione senza riscatto: "la puttana", donna aperta, impura, pubblica, il più grande disonore che possa capitare a una famiglia.

Secondo una giovane donna da qualche anno a Roma, ´si fa per fare pulizia, anche da fuori sembra tutto più pulito e poi, soprattutto, per non sentire piacere. Calma il piacere. Se uno è chiuso ha meno possibilità. Perché se la donna è aperta sente troppo piacere e anche a dieci anni può avere piacere e questo è peccato. Se invece sei chiusa se uno ti tocca non senti niente, anzi hai paura e così rimani vergine fino al matrimonio. Io penso sia legata alla religione perché ti hanno fatto capire che solo tuo marito ti può aprire perché se sei aperta e nessuno ti ha sposato è sicuro che nessuno ti sposerà. La religione dice che la verginità è sacraª.

Infine il terzo punto: padri che si oppongono all'infibulazione delle proprie figlie. È un tema delicato che ci introduce in alcuni interni domestici, teatro di rapporti familiari e di tensioni tra marito e moglie, che rendono tali episodi non facili da decifrare. Soprattutto perché non c'è un caso tra quelli narrati in cui le affermazioni dei padri abbiano avuto un qualche seguito, sono tutte rimaste inascoltate; ma si sa, in questo campo sono le donne a decidere. Il fatto che all'atto pratico le cose siano restate come prima non deve però farci sottovalutare l'aspetto innovativo. È una piccola cosa, ma è comunque un segno impercettibile di qualcosa che ha cominciato a cambiare, di una diversa sensibilità. Più che di cambiamento credo che dovremmo parlare di contraddizioni in cui si esprime un conflitto latente tra ruoli diversi. Non dimentichiamo infatti che questi padri che si dichiarano contrari all'infibulazione delle proprie figlie sono poi gli stessi uomini che non avrebbero mai accettato in moglie una donna non infibulata.

Prendiamoli dunque per quello che sono, dei deboli segnali che ci indicano che anche una pratica tradizionale come l'infibulazione è entrata in un'area di trasformazione.

Un altro segnale in questa direzione ci è venuto da un divertente contraddittorio tra alcune donne di età e provenienza diverse nel corso di un focus group a Roma, dove si sono messe a descrivere e a commentare sul piano estetico i diversi tipi di intervento. Sentiamole:

Suad: L'operazione l'ho fatta in ospedale. Hanno tagliato la clitoride e le piccole labbra e poi le hanno cucite, da fuori sembra normale Si faceva in questo modo nelle città attorno agli anni sessanta. È un tipo di circoncisione meno completa di quella faraonica che fanno molto soprattutto nelle campagne. In campagna la fanno come la pista di un aeroporto.

Aman: Per la nostra generazione tagliavano le piccole labbra e cucivano le grandi labbra e la pellicina sopra la clitoride. Così rimane gonfio, mentre per le generazioni precedenti tagliavano anche le grandi labbra e diventavano piatte. Come estetica è più bello il nostro. Se una sta in piedi non si vede che è cucita.

Amina: Il nostro è più bello. Nei villaggi si fa ancora la cucitura totale. È troppo piatto.

Khadra: La nostra è il meglio, la piazza è orrenda. Ho visto delle ragazze che l'hanno fatte nei villaggi, che erano veramente mal conciate. Una di loro era stata circoncisa tutta, l'avevano rovinata. Hanno cominciato da dove cresce e hanno tolto tutto. Altro che piazza! A me non hanno tagliato tutto, le labbra superiori non le hanno cucite.

Amina: L'ho vista anch'io, poteva fare un bollito.

Anche questo dialogo a ruota libera ci segnala due cose importanti che possono ritornare utili per passare poi a parlare del presente. Ci confermano che tra gli anni '70 e gli '80 qualcosa è cambiato tra una generazione e l'altra, un cambiamento non da poco che riguarda la scomparsa in ambiente urbano della circoncisione faraonica e che ha accentuato il divario tra città e campagna, dove tutto appare ancora lo stesso da tempo immemorabile.

Certo anche qui si tratta di una piccola cosa, ma forse non per la donna che deve essere infibulata. Quest'ultimo aspetto appare però bizzarramente trascurato nella loro conversazione dove prevale un tono scherzoso, tutto giocato sul lato estetico, che ci ricorda quanto peso abbia tra le motivazioni per l'infibulazione l'idea di un abbellimento del corpo femminile, il cui criterio di valutazione è sempre e solo il proprio corpo, rispetto al quale i corpi delle altre appaiono brutti o deformi. Ma il più brutto resta il nostro, come ci hanno fatto garbatamente capire, un corpo aperto, impuro, in disordine, che non è stato ripulito delle "parti pendule", decisamente antiestetiche.

9. Fondamentalisti versus tradizionalisti

Il vero cambiamento è arrivato, come si è già accennato, negli anni '90 con il fondamentalismo islamico, che ha proibito l'infibulazione, sostituendola con la sunna, e forte dell'autorità del Corano è riuscito ad arrivare fino ai ceti popolari dove aveva invece incontrato più difficoltà la campagna contro le Mgf condotta negli anni ottanta dall'Organizzazione democratica delle donne somale.

Di questo cambiamento i primi segnali ci sono venuti dalle donne intervistate, la maggioranza delle quali non ne ha però fatto esperienza diretta, essendo ormai in Italia da circa dieci anni, ma ne ha avuto conoscenza tramite la rete di relazioni e di traffici che le mantengono in contatto permanente con la propria comunità d'origine in Somalia. Si sente dai loro discorsi che si tratta di un cambiamento ai suoi inizi, nel senso che nonostante la forte influenza della religione islamica, l'attaccamento alle tradizioni è ancora più forte e si continua a infibulare le bambine. C'è quindi un clima di incertezza, intanto perché la presenza del clero fondamentalista non è arrivata dappertutto nel paese e comunque non è dovunque bene accetta, e poi perché con la guerra le operazioni non sono diminuite, ma anzi come si è accennato sono aumentate per mettere le donne al riparo dagli stupri e dalle violenze.

Se quasi tutte si sono dichiarate in una maniera o nell'altra contrarie a infibulare le proprie figlie, dai loro discorsi si capisce invece che poi a decidere veramente saranno le scelte di vita che faranno, se cioè opteranno per l'Occidente o se ritorneranno a vivere in Somalia. Lo ha spiegato bene una di loro, una donna di quarant'anni che vive da alcuni anni in Italia: ´Qui non c'è una società che ti costringe a farloª, ha detto a proposito del nostro paese, ´è una società più civile. Quando tornano in Somalia possono cambiare idea; ci sono i vicini e i parenti che ti possono costringere a farloª.

Un'osservazione che ci ricorda come il legame privilegiato e prioritario con la propria comunità di partenza in Africa intervenga a guidare, dosare, e orientare i rapporti tra le immigrate e la comunità di accoglienza. Il fatto che poi questi ultimi non siano sempre facili ma siano piuttosto segnati da tensioni di vario tipo e da una sostanziale difficoltà di intendersi su alcune questioni di principio finisce per rafforzare il legame con la Somalia. Come tutti i rapporti a tre anche questo tra immigrate, comunità di partenza e società di accoglienza è esposto a tensioni, intrecci, sovrapposizioni che non sono sempre facili da decifrare. In particolare è difficile capire quando parlano della Somalia o quando proiettano su di essa le proprie aspettative o frustrazioni che hanno invece origine e senso dal contatto con la comunità di accoglienza.

Come prima ondata di emigranti la loro è una generazione di mezzo esposta a tutti gli umori, gli entusiasmi, le paure e i ricatti che nascono dalla tensione di vivere tra due mondi così distanti. Dai loro discorsi emerge infatti la difficoltà a orientarsi tra una situazione in transizione come quella somala e la precarietà della condizione di immigrata, per cui appare inevitabile la posizione di alcune di loro, tutte sopra i 50 anni, che si rifiutano di mettere in discussione l'infibulazione, sentita come un punto di riferimento fondamentale in tanta incertezza quotidiana. ´Io seguo la mia culturaª, ha detto una di loro che vive a Roma, ´non voglio lasciare la mia cultura, non potete impedircelo. Quando gli europei vanno in Africa si comportano secondo le loro abitudini e la loro cultura. Io l'ho fatta alle mie figlie, poi loro sceglieranno cosa fare alle loro bambine. Mi dispiace se le mie figlie non lo faranno. Diventeranno più civili, ma lasciare la tua cultura non è civileª.

C'è dunque una minoranza tra le donne intervistate che conferma la propria fedeltà al mondo di valori e di pratiche della società in cui è nata e cresciuta, e pur riconoscendo che ´l'infibulazione è peccatoª poi non ha difficoltà ad ammettere, come ci ha detto una di loro che ´la tradizione mi piace di piùª. Una minoranza tra le nostre intervistate, ma certamente ancora una larghissima maggioranza in Somalia, soprattutto nelle campagne. Non dobbiamo infatti dimenticare come in ogni società chi sceglie la via dell'emigrazione sia sempre un'élite, che proviene in genere dalle aree urbane e come tale le loro posizioni non sono rappresentative di una situazione di fatto, ma indicano piuttosto una tendenza, sono la punta avanzata di trasformazioni che nel paese di origine procedono in maniera più lenta e contraddittoria.

Fatte dunque salve le proporzioni, le affermazioni delle immigrate somale in Italia sono lo spettro abbastanza fedele delle posizioni che prevalgono oggi in Somalia in materia di Mgf e che possiamo raggruppare nelle seguenti tipologie: tradizionalista, religiosa, laica.

La posizione tradizionalista è quella che continua a fare l'infibulazione così come è stata tramandata dalla tradizione e comprende l'escissione e la circoncisione faraonica, ma con qualche aggiustamento rispetto al passato. Abbiamo già visto nel paragrafo precedente come in ambiente urbano sia ormai in via di scomparsa la faraonica, ma c'è un altro cambiamento importante da segnalare anch'esso circoscritto alle città. Da circa venti anni si è cominciato a farla in ospedale o in ambulatori privati che pare si siano moltiplicati con la guerra perché è una delle poche professione redditizie. Questa tendenza alla medicalizzazione con cui si cerca di ovviare agli aspetti più dolorosi e pericolosi dell'infibulazione ricorrendo all'anestesia e all'uso di farmaci, è uno dei tanti lati oscuri dei processi di modernizzazione che investono il continente africano, dove si tende a risolvere sul piano della razionalità tecnica quelle che spesso sono come in questo caso espressioni di profonde lacerazioni sociali. Ci sono due possibili conseguenze di questo orientamento: da una parte la scomparsa degli aspetti rituali e simbolici legati al passaggio di status - l'ospedalizzazione rende superflua la cerimonia per socializzare e festeggiare l'evento assieme a parenti e vicini - e dall'altra il rischio di congelare una pratica rendendola endemica proprio nel momento in cui è entrata in un'area di cambiamento.

La seconda posizione, religiosa, corrisponde alla sunna. Sunna significa - come ci è stato spiegato quando siamo passati ad affrontare questo argomento in uno dei nostri focus group - ´qualcosa che non è un dovere. Ad esempio le preghiere che uno vuol fare in più rispetto a quelle prescritte, quello è una sunna. Non è un obbligoª. Ma la maniera in cui è stata imposta dal fondamentalismo islamico, che ne ha fatto la testa di ponte della sua diffusione in Somalia, fa pensare piuttosto al contrario, fa pensare cioè a una pratica religiosa che è resa di fatto obbligatoria dalla sua funzione di riscatto dalle barbare usanze della tradizione.

Nella sunna prevale un forte ritualismo, sia nella forma che nella sostanza. L'intervento chirurgico è ridotto al minimo, mentre tutto è spostato sui significati simbolici associati a tale gesto, che nessuna delle nostre intervistate è riuscita peraltro a interpretare in maniera soddisfacente. Ma se la sunna è una forma di intervento "minore" che, a differenza delle altre Mgf, non altera completamente la morfologia dei genitali femminili, tutt'altro che "minore" è la sua efficacia simbolica che si iscrive nel progetto fondamentalista di "islamizzare la modernità".

Per il fondamentalismo il cambiamento non è un valore, ma è qualcosa da cui bisogna difendersi cercando di controllarne le direzioni e gli esiti, pertanto la sola forma di cambiamento tollerata è la proiezione del passato (le Scritture) nel futuro. Il ritorno al Corano, attraverso cui passa ogni strategia di cambiamento, diventa così una maniera per liberarsi dalla tradizione, ma anche per regolamentare i processi di modernizzazione sottraendoli all'egemonia occidentale. La sunna è un caso molto concreto di questa strategia, è il Corano che ne legittima il ruolo nella diffusione del credo fondamentalista in Somalia che essa conduce contemporaneamente su due fronti: la tradizione e l'Occidente. Due sono gli obiettivi che con il ritorno alla verità rivelata delle Scritture la sunna persegue: da una parte sconfiggere la tradizione locale rappresentata dall'infibulazione, e dall'altra costituire un'alternativa religiosa alle campagne di sensibilizzazione condotte dall'Organizzazione democratica delle donne somale con il sostegno di Aidos nel periodo precedente la guerra civile.

Quanto sia efficace tale strategia lo dimostrano i progressi che in pochi anni ha fatto la penetrazione del fondamentalismo in Somalia non solo sul territorio, ma nel cuore e nella mente delle persone. Quasi tutte le donne intervistate - all'80 per cento - hanno dichiarato di avere fatto o che faranno la sunna alle proprie figlie, una scelta quasi sempre presa assieme ai mariti il cui parere appare adesso assai più ascoltato che in passato.

Il cambiamento introdotto dalla sunna non si limita solo alle Mgf, ma riguarda anche la condizione della donna, che si cerca di ricondurre a una visione improntata alla più rigida ortodossia fondamentalista. Nell'insieme è una strategia molto coerente che dà un colpo al cerchio e uno alla botte, riuscendo nello stesso tempo a fronteggiare sia il richiamo della tradizione sia le sfide della modernizzazione, tanto da apparire al momento attuale come la forma più radicale di legittimazione delle Mgf. La sunna è infatti tutta interna alla logica delle Mgf, all'idea che comunque quei corpi di donne debbono essere disciplinati e sottoposti a un intervento che se non ne altera la morfologia e l'estetica come fa l'infibulazione, ne sposta e ne consacra a livello simbolico gli stessi significati. Nel confermare questa forma di controllo del corpo femminile la sunna si rivela la più insidiosa delle Mgf, dal momento che riducendo al minimo la manipolazione dei corpi, ne accredita un'immagine innocua che costituisce l'ostacolo più grande alla loro abolizione.

Non è detto però che sia vincente sul lungo periodo. La battaglia condotta dal fondamentalismo contro l'infibulazione rischia di avere un effetto boomerang, nel senso che ha comunque dato il via a un processo di desacralizzazione delle Mgf i cui effetti non sono forse così gestibili nel lungo periodo. Una volta sottratta al sacro e ricondotta alla tradizione, anzi a una "cattiva tradizione" - per riprendere la formula fondamentalista - non è stata delegittimata solo l'infibulazione, ma è tutto il sistema delle Mgf che attraversa una crisi di legittimazione e rischia di andare incontro a un processo di disaffezione che forse non risparmierà nemmeno la sunna.

In questo caso la soluzione vincente sarebbe - e siamo alla terza alternativa - la loro scomparsa, la soluzione laica. Come è noto, da tempo in Somalia e nel mondo occidentale è presente un forte movimento di opinione per sradicare le Mgf, che però come si è accennato appare tuttora circoscritto a un'élite di donne e uomini impegnate/i a livello locale con l'appoggio di alcuni governi africani e delle organizzazioni internazionali.

Tale posizione non sembra comunque trovare molto seguito tra le donne da noi intervistate. Solo alcune, colte e di status sociale elevato, si sono dichiarate favorevoli all'eliminazione delle Mgf, ma sono un piccolo gruppo. La maggioranza non sa nemmeno immaginare una vita - né la propria, né quella delle loro figlie né tantomeno quella delle loro nipoti - che non sia scandita da una qualche forma di manipolazione del corpo. Più flessibili e problematiche appaiono le giovani. ´Può darsi che sia un discorso di generazioneª, ci ha detto una di loro arrivata da poco in Italia, ´che anche i ragazzi della mia età abbiano cambiato idea. Sono le donne, soprattutto nel villaggio, che non vogliono cambiare. Un mio cugino non ha voluto che toccassero la moglie, si sono sposati, tutto va liscio, ma il discorso non si è chiuso lì perché tutti parlano male, dicono che ha sposato una poco di buono. Se avrò una figlia preferisco che parlino male, mi occuperò io di difenderla, ma non gliela voglio fare. Negli ultimi anni ho visto che c'è molta discussione, molta opposizione a questa cosa. Poi tutte le ragazze che sono state infibulate ora sono adulte, hanno studiato, quindi il cambiamento dovrebbe avvenire anche tra le donne. Certo oggi non è ancora risoltoª.

La percezione di una rottura generazionale è presente anche in quelle come Asli, una trentenne in Italia da più di 10 anni, che sarebbe pronta a infibulare la propria figlia. ´Oggi c'è un'altra mentalità, mia figlia è un'altra generazione. Dipenderà da lei, se quando avrà sei anni mi chiederà di farla gliela farò, con l'anestesia peròª.

10. Matrimonio, prezzo della sposa, scolarizzazione

Per saperne di più conviene andare a vedere che cosa ne è del prezzo della sposa. Si tratta di capire come ha retto ai cambiamenti che hanno cominciato a investire le Mgf tutto il complesso sistema di strategie matrimoniali fondate sul prezzo della sposa e se vi siano stati dei fenomeni di influenza reciproca tra i due fenomeni.

Dai resoconti fornitici dalle nostre transmigranti anche il sistema del prezzo della sposa è ormai entrato in un'area di cambiamento, che sembra essersi svolto quasi in contemporanea al processo di erosione di legittimità delle Mgf innestato dall'effetto combinato del fondamentalismo e dei processi di modernizzazione che ha investito l'infibulazione nell'ultimo decennio. È una parabola che corre parallela alle trasformazioni delle Mgf, ma che ne è comunque indipendente quanto alle dinamiche e ai motivi che ne sono la causa. Anche qui i cambiamenti riguardano al momento solo le aree urbane.

Tutte le famiglie delle donne intervistate che hanno ormai oltre i 40 anni e che si sono quindi sposate più di 20 anni fa hanno ricevuto dalla famiglia dello sposo il brideprice. Sentendo le loro storie abbiamo capito che tutto si è svolto secondo uno stesso protocollo: il matrimonio combinato dalle famiglie, la promessa di matrimonio, i regali dell'uomo alla futura sposa, il prezzo della sposa deciso in sede di matrimonio dalle due famiglie - in alcuni casi ancora in bestiame, ma normalmente in denaro - e versato alla famiglia della sposa. Le interviste hanno confermato il legame tra prezzo della sposa, matrimonio combinato e infibulazione. L'ammontare della cifra da versare dipende oltre che dallo status economico della famiglia dello sposo, dal "valore" della donna e cioè, come più di una ci ha spiegato, ´se è ben chiusa e se la cucitura è strettaª. Se la donna si risposa, perché è rimasta vedova o ha divorziato, in occasione delle seconde nozze non viene versato il prezzo della sposa, dal momento che non è più vergine. In genere c'è una specie di quota fissa. Come ci ha detto Fatima, che nel 1975 ha fatto un matrimonio combinato dalla famiglia con un uomo più vecchio di 10 anni: ´La mia famiglia non ha deciso niente, non ha stabilito un prezzo, quello che hanno portato abbiamo preso. Sanno più o meno quanto portare. Adesso le famiglie sono più civili. Dividono le spese per la cerimonia e l'acquisto dei mobiliª.

Quest'ultima affermazione è stata confermata dalle più giovani tra le nostre intervistate. Non possiamo però parlare di una scomparsa del prezzo della sposa, ma piuttosto di un cambiamento di destinatario. A beneficiarne può continuare a essere la famiglia della sposa, ma anche la nuova coppia di sposi, nel senso che il padre della sposa può devolvere tutto o parte dell'ammontare che gli è tradizionalmente dovuto alla nuova famiglia. In questi casi il prezzo della sposa diventa una sorta di "dote indiretta in favore della figlia", che ci segnala anche un cambiamento nelle relazioni familiari e della condizione della donna nella famiglia. Stiamo sempre parlando di una élite, di persone appartenenti ai ceti medi urbani, mentre nelle campagne le cose sono quelle di sempre, come nel caso di Sahru, una giovane di 29 anni proveniente da un'area rurale, che ci ha detto come in occasione del suo matrimonio celebrato nel 1993 ´i familiari dello sposo hanno regalato del bestiame: 25 pecore, 3 cammelli e 2 cavalli belli con la criniera lungaª.

Nel contesto dell'immigrazione non si capisce bene che ne è del prezzo della sposa, ma questo non significa che sia scomparso, anche perché tradizionalmente ha un valore rituale in quanto rappresenta una forma di rispetto verso la famiglia della sposa.

Con le giovani sembra comunque diventato una argomento tabù, qualcosa di cui non si ama troppo parlare con un occidentale. È tra le cose che si decidono in Africa. Così come i matrimoni che vengono ancora molto spesso decisi in Africa. Un matrimonio celebrato all'estero non ha valore, conta solo quello che si fa in Somalia con il rito tradizionale alla presenza di tutta la comunità. E se questo non è possibile, sia per la guerra, sia per i costi o per qualsiasi altro motivo, lo si fa per procura, magari in contemporanea alla celebrazione della cerimonia in Occidente.

Questo però non vuol dire che si tratti sempre di un matrimonio combinato. Ormai sono in larga maggioranza i giovani a scegliere il proprio coniuge e la riprova è che sono in aumento i matrimoni tra coetanei: la spia di un matrimonio combinato è sempre la grande differenza di età tra marito e moglie. Scelgono loro, ma hanno comunque sempre bisogno del consenso delle famiglie, che hanno mantenuto il potere di veto. Molto diverso è quello che succede in occasione delle seconde nozze. Come ci ha spiegato Kadigia: ´Ora comunque la cultura è cambiata, gli uomini sposano anche le divorziate, il matrimonio non è più combinatoª.

Un altro indice interessante delle trasformazioni che hanno investito il campo delle relazioni tra i sessi a livello istituzionale è la poligamia. È senz'altro un'usanza ancora molto seguita in Somalia che è stata rafforzata con l'arrivo del fondamentalismo, ma c'è una tendenza soprattutto da parte femminile a preferire il divorzio all'arrivo di un'altra moglie, anche se questo spesso vuol dire una vita di solitudine e di stenti, come sanno bene molte delle donne immigrate che abbiamo conosciuto.

Alla base di queste trasformazioni è importante segnalare il ruolo che ha svolto uno dei fattori che hanno maggiormente alterato gli equilibri fra i sessi e le generazioni negli ultimi vent'anni in Africa: l'accesso all'istruzione da parte delle donne. Anche se l'affluenza femminile ha la sua massima concentrazione a livello delle scuole primarie, mentre cala del 50 per cento a livello secondario e si riduce moltissimo a livello universitario, tuttavia l'accesso all'istruzione da parte di larghi strati della popolazione femminile è stato un progresso importante non solo, come in genere si pensa, perché ha elevato il livello di istruzione mettendo le donne in grado di assumere una maggiore consapevolezza e di negoziare la propria posizione diventando dei soggetti sociali critici e partecipi ai processi di cambiamento. L'importanza dell'istruzione femminile in Africa è soprattutto dovuta alle conseguenze che ha avuto sul piano complessivo dell'organizzazione economica e delle relazioni di potere, perché la scuola ha sottratto migliaia di ragazze alla reclusione nelle famiglie e al lavoro nell'unità domestica o alla vita nomade appresso agli animali mettendo in moto un processo di cambiamento sociale che ha scardinato gerarchie sociali e ruoli occupazionali.

Attualmente vi sono due fattori che possono intervenire pesantemente sull'istruzione femminile: il primo è la guerra che ha reso più difficile per tutti, sia ragazzi che ragazze, andare a scuola, l'altra è l'incognita rappresentata dall'espansione del fondamentalismo islamico. Si è già detto come con la comparsa del menarca le ragazze non possono più frequentare la scuola coranica, resta da vedere cosa succederà con la scuola pubblica.

11. L'emigrazione nigeriana a Torino e a Roma

La situazione delle nigeriane in Italia è molto diversa dall'esperienza somala. Forse per alcuni aspetti è più difficile, ma appare meno drammatica. Non c'è un tessuto comunitario così strutturato in grado di offrire quelle garanzie di protezione e di tutela della propria appartenenza etnica che caratterizza, sia pure con accentuazioni diverse, l'immigrazione somala in Italia. Gli itinerari delle nigeriane appaiono più individuali e casuali, anche se di fatto i circuiti dell'immigrazione fanno spesso capo a qualche parente, amico o connazionale stabilito da tempo in Italia.

Il loro approdo in Italia segue spesso i percorsi tortuosi della clandestinità. Non mancano episodi rocamboleschi come quello accaduto a Marylin, una bellissima ragazza nigeriana, che è passata addirittura per Mosca dove è riuscita a scampare a una brutta avventura. Vale la pena di riportare la sua testimonianza perché può aiutare a capire meglio le difficoltà che costellano la strada e la vita di queste immigrate.

´Quando ero a Mosca sono stata presa dalla mafia russa che mi ha picchiata alla fermata dell'autobus dopo che ero uscita dalla chiesa. Io mi sono accorta di queste persone con la macchina e sono salita sul primo autobus che è arrivato e che non era il mio. E sono andata fino al capolinea. Non volevo scendere avevo paura, ma l'autista dell'autobus mi ha fatto scendere perché aveva paura anche lui. Sono scesa e ho cominciato a camminare terrorizzata. La macchina mi ha bloccato sono scesi due uomini che mi hanno detto di andare a casa loro "non hai soldi poverina". Io ho detto di no, allora mi hanno preso in braccio: io ho lottato, ma mi hanno messo in macchina. È passata una macchina della polizia che ha visto e mi ha tirato fuori dalla macchina. Mi hanno portato all'Ufficio di polizia. Le mie amiche mi hanno detto "poverina, vai via". Ho avuto il visto e sono partita in dicembre, mi ha aiutata una russa fidanzata con un nigeriano. Ho fatto due settimane di treno fino all'Ungheria. A Budapest avevo un indirizzo di due studenti, marito e moglie, che mi hanno ospitato quasi per un mese. Sono arrivata qua nel '95 attraversando la frontiera a piedi. Ho pagato il viaggio. Nel febbraio del '95 ho conosciuto alla stazione una nigeriana e una del Ghana e abito con loroª.

Quando finalmente è arrivata a Torino sana e salva Marylin non ha trovato una comunità a cui rivolgersi, ha avuto solo la fortuna di fare un buon incontro con due coetanee che le hanno offerto ospitalità. Le donne nigeriane non possono fare affidamento su una struttura organizzata con dei leader comunitari come le somale. Questa assenza di punti di riferimento collettivi mi sembra possa essere attribuita ad alcune caratteristiche della società di partenza e alla natura dell'immigrazione nigeriana in Italia. A differenza della Somalia - una etnia, una lingua e una religione - la Nigeria non ha un tessuto culturale, linguistico e religioso omogeneo, dal momento che è uno stato federale formato da 36 stati, ciascuno con una considerevole autonomia, ed è popolato da circa 250 gruppi etnici - i più importanti sono gli Hausa, gli Yoruba e gli Ibo - che hanno tradizioni, religioni e lingue diverse. Inoltre, contrariamente a quanto si crede, l'immigrazione nigeriana in Italia costituisce una percentuale molto bassa, con scarsa presenza maschile e un'alta percentuale di donne che esercitano la prostituzione, che però costituiscono un mondo a parte rispetto alla maggioranza dei loro connazionali.

In questa situazione contano molto di più le appartenenze locali o religiose che offrono più opportunità di condivisione e di momenti comuni. Ad esempio a Roma ci sono donne che si vedono regolarmente una volta al mese perché provengono tutte dallo stesso stato, Cross River; ve ne sono altre di religione cattolica che due volte al mese si incontrano dopo la messa per un pranzo domenicale dove ognuna porta qualcosa da mangiare. Le più frequentate sono però le chiese protestanti la cui liturgia basata sul canto e la partecipazione attiva alle cerimonie religiose da parte dei fedeli offre più occasioni di socializzazione.

I minori vincoli comunitari le rendono però più aperte e disponibili nei confronti degli italiani alla cui amicizia alcune sembrano tenere moltissimo, nel senso che la frequentazione di italiani appare spesso come un segno di integrazione o di status e di modernità. Non sempre però gli italiani sono disponibili a intrecciare relazioni che vadano al di là di un saluto per strada o nel cortile del condominio. ´Roma non è una città molto aperta, lo è solo con i turistiª, ci ha detto una giovane e bella signora nigeriana da alcuni anni in Italia con la famiglia. ´Se uno chiama le persone di una casa queste non rispondono. La Nigeria è invece un paese che ama l'accoglienza. Gli italiani non sono aperti nemmeno con i propri parenti. Non danno da mangiare alle persone che arrivano in casa. Se lo fanno dicono "mangia, mangia, poverina"ª.

Un aneddoto sulle relazione interetniche tra italiani e africani che ha piuttosto il carattere di un apologo, dove la carità si rivela la maniera migliore per sottrarsi a un rapporto alla pari come quello dell'ospitalità. Come sempre a Roma prevalgono i rapporti informali soggetti agli umori delle persone e alla casualità degli incontri e delle situazioni che possono però portare anche a vere amicizie. A Torino, come si è già visto per le somale, c'è invece un tipo di accoglienza diversa, che offre maggiori opportunità in termini di strutture e di reti di relazioni. Ci sono anche organizzazioni che si occupano della prostituzione - centri di accoglienza, unità di strada, luoghi di rieducazione come Tampep, un'organizzazione promossa dalla Provincia di Torino che dal '93 è attivamente impegnata sul territorio. Un campo minato da cui ci siamo tenute lontano perché la prostituzione presenta situazioni e problemi che avrebbero finito per spostare il focus della nostra ricerca.

Ne abbiamo comunque incontrate alcune, tra cui una che si è presentata dicendo ´io lavoravo sulla stradaª, oltre a ex-prostitute che ora fanno le colf e si appoggiano ad alcune di queste organizzazioni. I loro corpi parlano ancora del vecchio mestiere, per la maniera di vestirsi, di truccarsi, di muoversi. Ma sono anche persone educate a prendersi cura del proprio corpo da un punto di vista sanitario. La cura della salute è comunque un indicatore interessante. Quasi tutte le nigeriane che abbiamo incontrato sia a Torino che a Roma hanno un rapporto con il proprio corpo molto diverso dalle somale, non solo perché vestono all'occidentale, ma perché sono utenti regolari del sistema sanitario, utilizzano le strutture pubbliche, vanno ai consultori dove si sottopongono ai normali controlli e fanno regolarmente gli esami e le analisi di routine.

Le nigeriane che abbiamo intervistato provengono nella maggioranza dei casi da aree urbane, sono persone di età diverse, molte sono sposate, alcune con italiani, ma vi sono anche delle single, hanno quasi tutte un buon livello di istruzione, lavorano come colf o commercianti, poi vi è anche una piccola élite di donne che svolgono attività più qualificate in alcune istituzioni pubbliche e private,

Non tutte le donne da noi contattate sono state circoncise. In Nigeria la percentuale delle donne circoncise è un po' sotto al 50 per cento, sia perché, come si è già accennato, si tratta di un paese multietnico, segnato da usanze e tradizioni molto diverse anche per quanto riguarda le Mgf, che non sono presenti in tutti gli stati del paese, sia per i successi conseguiti dalle campagne contro queste pratiche condotte a partire dagli anni ottanta dal Comitato nigeriano contro le Mgf (fondato dalla prima nigeriana diventata medico, Irene Thomas) e da alcune istituzioni nazionali tra cui il ministero della Sanità, a volte con l'appoggio della chiesa cattolica e di altre religioni.

Fatta eccezione per il nord dove è diffusa l'infibulazione, nel resto del paese si fa l'escissione o la clitoridectomia. L'età in cui vengono eseguite varia da un gruppo etnico all'altro, ma in genere è nei primi giorni di vita - in alcuni gruppi a 8 giorni, in altri a due settimane dalla nascita - ma ci sono anche etnie in cui si fa nell'adolescenza o addirittura in certi casi nelle donne alla loro prima gestazione. A farlo sono in genere operatrici tradizionali.

Tra le donne da noi intervistate 5 non hanno subito alcun intervento, le altre sono state quasi tutte operate pochi giorni dopo la nascita e quindi non ne serbano alcun ricordo. Una di loro addirittura non l'aveva mai saputo e se ne è accorta solo quando ha avuto una figlia e mentre la cambiava si è resa conto che era diversa da lei. Due donne una dello stato di Akawa Ibom e l'altra del vicino stato di Cross River, sono state operate a 7 anni. Quest'ultima, una donna straordinariamente intelligente e molto aperta, laureata e con una discreta cultura, ce l'ha raccontato ridendo, felice di poterne parlare perché, a parte la sofferenza, era un bel ricordo soprattutto per la festa e i regali ricevuti, anche se adesso la ritiene una pratica ´senza sensoª.

Abbiamo avuto anche due casi di quindicenni e quello di una donna operata addirittura prima di partorire. Quest'ultima, Kate, è una donna intelligente ma molto aggressiva che vive da alcuni anni a Torino dove lavora in un'organizzazione culturale e che ci ha rilasciato una lunga intervista raccontandoci un'incredibile storia: un matrimonio combinato dalla nonna materna con un uomo di quasi 40 anni più vecchio e di famiglia molto ricca da cui ha avuto un figlio, ma che poi lei si è rifiutata di sposare, mandando allegramente all'aria le aspettative del padre di cavarne un po' di soldi con il brideprice, per poi abbandonare tutti, uomo, nonna, padre e figlio dopo averlo allattato, per tornarsene all'università e infine emigrare. Una bella donna con una forte personalità che non esita a gettarsi in situazioni estreme, ma che nello stesso tempo ci dà il segno dei cambiamenti che stanno emergendo con quest'ultima generazione di donne provvista di un alto livello di scolarizzazione.

Dalle interviste emerge l'assenza di un vissuto traumatico, mentre le Mgf non sembrano costituire un grosso problema né a livello sanitario né a livello della vita di relazione. Nell'insieme tutte queste donne non appaiono molto interessate alla cosa, né per quanto le riguarda - sono minori i disturbi dovuti all'escissione, una volta superati i rischi dell'intervento e il periodo di guarigione - né per quanto riguarda le figlie. Molte l'hanno già deciso: non opereranno le proprie figlie, per loro si tratta di una pratica ´che provoca delle sofferenze inutiliª. Ma ce ne sono altre che la considerano ancora un deterrente contro la promiscuità.

Riporto alcune battute di uno scontro su questo tema che si è svolto nel corso di un focus group a Torino:

Alma: Io non sono contro la circoncisione per la donna perché deve controllare la sessualità, così non sei promiscua.

Raila: Come fai a sapere che cosa prova una donna non circoncisa, visto che sei circoncisa? Dai una risposta anche per una donna diversa.

Alma. Ci vuole il controllo della sessualità. Le donne non circoncise sono promiscue, io ho un'amica…

Ester: Allora con tuo marito non hai voglia di fare sesso.

Alma: No, ho avuto voglia.

Ester: E allora!

Ada: Una mia conoscente circoncisa non riesce a controllarsi.

Jane: Per me tra donna circoncisa e non circoncisa c'è differenza. Facevo la doccia insieme a una che mi ha chiesto "Jane fammi vedere". "Dammi soldi e io ti faccio vedere". Ho fatto vedere: è stata lì a guardare. Poi ho voluto vedere anch'io e le ho detto "è grosso e brutto, questo a me fa schifo. Vedi la mia è tutto pulito". "Ma come fai a godere con tuo marito?" mi ha chiesto.

Ester: Non c'è molta differenza tra me e mia figlia, che non è circoncisa.

Juliette: La circoncisione è un tabù, è un fatto di status sociale. Solo le schiave non erano circoncise, perché non avevano le possibilità, i mezzi per fare la festa.

Raila: La circoncisione diventava un'identità di appartenenza. Queste cose non sussistono più.

Juliette: Si è sempre pensato che se non fosse stata tagliata la clitoride il bambino maschio sarebbe morto durante il parto perché avrebbe urtato la testa contro di essa.

Aliuo: Come sapevano che stava nascendo un maschio?

Juliette: Vanno a chiedere a un mago che indovina, a un oracolo.

Raila: Se nasceva una femmina che succedeva?

Juliette: In ogni caso legavano la clitoride in quelle non circoncise. Il modo in cui tagliavano era collegato con il momento del parto. Adesso non lo fanno più. Va bene così.

Ada: Non è bello non essere circoncisa.Alma: Nel mio paese se non lo fai non c'è rispetto

Juliette: È meglio per la donna avere un limite nel sesso perché rovina la salute della donna, dà incontinenza urinaria.

Raila: Non sono d'accordo con l'opinione di Juliette: perché hai bisogno di controllare la sessualità delle donne?

Ada: Perché le donne si devono controllare. Siamo diversi per pelle e cultura. È una questione di igiene personale. Limitare la sessualità della donna non è per evitare l'incontinenza. L'incontinenza non è dovuta ai troppi uomini, ma all'igiene personale.

Raila: C'è l'idea di donne voraci, di un eccesso di sessualità.

Jane: Dipende da come si controlla, dipende dalla persona, come una che fuma o che beve.

Ada: Non è solo un intervento fisico che può trattenere la donna, è anche una questione di carattere.

Raila: Ma allora non c'è bisogno dell'intervento fisico.

Ada: No, si abbinano.

Ci sono tutti gli stereotipi e le credenze popolari sulla circoncisione, di cui si sono fatte interpreti Juliette, una vecchia signora da poco arrivata in Italia, Ada, una ragazza giovanissima anch'essa appena arrivata, e Alma, una donna di mezza età che fa la colf; mentre la voce della ragione è stata interpretata da tre persone molto diverse: Raila, una giovane intellettuale che ha lasciato la Nigeria per motivi politici, sposata con un italiano, Jane, disoccupata, di una simpatia travolgente, che per l'abbigliamento vistoso e il linguaggio greve ha tutta l'aria di essere una ex-prostituta, e infine Ester, un donnone che gestisce un commercio a premi tipo catena di Sant'Antonio, tutte e tre in Italia da molti anni.

Lo scontro tra i due gruppi che si sono spontaneamente formati nel corso della discussione, peraltro animatissima, ci dice molto sulla situazione di transizione che si è aperta anche per le nigeriane sulle Mgf. Ci sono tutte le contraddizioni, i conflitti e le tensioni che si porta dietro un processo di cambiamento come questo che funziona a due velocità: nigeriane stanziali da una parte e immigrate dall'altra. Perché questo è lo schieramento che si è materializzato nel focus group torinese: da una parte l'atteggiamento ormai distaccato di quante vivono in Italia da tempo, dall'altra la posizione di chi, appena arrivata dalla Nigeria, si aggrappa alle proprie tradizioni per non essere spazzato via dall'uno e l'altro luogo.

In questione non è infatti tanto farle o non farle, dato che anche in Nigeria le Mgf sono in via di diminuzione almeno in ambiente urbano - non certo in via di scomparsa, come alcune di loro ci hanno invece detto. A essere oggetto di contestazione è piuttosto l'insieme delle credenze che hanno accompagnato, sostenuto e legittimato la secolare metamorfosi del sesso femminile. Credenze che ci possono far sorridere, ma che hanno esercitato per secoli una forte presa sull'immaginario collettivo delle donne disciplinandone i comportamenti, le pratiche e gli interventi sul corpo, e che presentano dei residui non immediatamente riassorbibili, soprattutto in assenza di un nuovo sistema di valori che si faccia carico a livello simbolico della loro scomparsa o trasformazione.

Certamente la loro presa è finita almeno per quanto riguarda le donne immigrate. C'è un altro indice interessante emerso nelle interviste e da alcune osservazioni a latere che riguarda il ruolo dei padri, un ruolo anche qui, come abbiamo visto con le somale, di rottura nei confronti della tradizione, di padri che si oppongono a far operare le figlie. Rottura in due sensi: perché intervengono in un ambito soggetto a una giurisdizione femminile e perché impediscono lo svolgimento di una pratica tradizionale in nome della salute e dell'igiene. Ma forse la cosa più interessante è che questa decisione con cui il padre si sostituisce alla madre della moglie (perché tradizionalmente è sempre stata lei a decidere sulle nipoti) può essere la spia di un cambiamento molto importante nella struttura della famiglia in direzione di una famiglia nucleare o quanto meno di una minore presa della famiglia allargata. Questo traspare anche da come vanno le cose con il sistema del prezzo della sposa. Le interviste hanno infatti messo in luce una situazione di cambiamento che ha investito l'intero sistema economico-simbolico fondato sul prezzo della sposa, e che non appare solo come una conseguenza delle trasformazioni che stanno interessando le Mgf, ma sembra seguire anche un andamento autonomo.

I tratti in via di scomparsa con flessioni diverse sono il matrimonio per ratto, l'età precoce della sposa, l'età anziana dello sposo. Naturalmente stiamo parlando sempre del contesto urbano. Anche il matrimonio combinato appare sempre meno in uso fra le nuove generazioni, in particolare quando la donna ha un alto livello di scolarizzazione. O meglio, è ancora in una fase di transizione perché se sempre più spesso è una scelta autonoma da parte della futura coppia di sposi, necessita tuttora del permesso delle due famiglie e anche in questi casi, come si fa nei matrimoni combinati, tanto la famiglia della sposa che quella dello sposo assumono informazioni sul backgroud familiare del futuro coniuge. In concreto ogni matrimonio si risolve in una piccola inchiesta condotta con l'aiuto di vicini, parenti e informatori che riferiscono su alcuni aspetti ritenuti fondamentali per dare il proprio consenso alle nozze, per esempio su quali malattie ci sono state in famiglia, se si sono registrati dei casi di follia, se sono persone istruite e se non sono pigre. Una volta acquisito il consenso delle famiglie la celebrazione del matrimonio segue poi un itinerario tradizionale. Sono comunque piccoli e grandi trasformazioni che rivelano un indebolimento della struttura di potere della famiglia allargata.

Resistono invece sia la poligamia, sia il prezzo della sposa. La poligamia è il grande cruccio delle donne africane, qualcosa che toglie sicurezza al loro matrimonio e alle loro vite. Il quadro più chiaro ce l'ha fatto Awa: ´La poligamia esiste tuttora a livello di villaggio, ma è diffusa anche in città e le due famiglie in genere vivono nella stessa concessione. È la prima moglie che va a contattare le altre mogli. La prima moglie è molto potenteª. Si è poi soffermata sulle strategie che le donne adottano per contenere gli effetti per loro devastanti della poligamia. ´La cosa miglioreª, secondo Awa, ´è quella di non opporsi, altrimenti il marito se ne va o lo fa lo stesso. Conviene dire di sì, ma chiedere che non porti in casa la nuova moglieª. Con l'emigrazione le cose non migliorano dal momento che in assenza delle mogli aumenta il rischio di trovare il proprio posto occupato da un'altra.

Il prezzo della sposa presenta margini di maggiore flessibilità, che vanno dal carattere puramente simbolico che può assumere nei ceti colti o a un cambiamento di destinazione dalla famiglia della sposa al futuro nucleo familiare.

Anche qui come per le somale si registrano dei casi in cui il prezzo della sposa non ha più la vecchia funzione di sostegno alla famiglia della sposa, ma una parte di esso può diventare ´una dote indiretta in favore della figliaª. Awa ci ha raccontato che il padre le ha chiesto ´quanto vuoi che paghi il tuo sposo?ª, e lei ha stabilito un prezzo basso, 200 $, ´per salvareª, come ha precisato, ´i soldi per la nostra futura famigliaª. Sull'ammontare del prezzo incide anche un fattore che ha molto cambiato la posizione delle donne africane e cioè l'istruzione, esercitando spesso un effetto contrario a quanto ragionevolmente - il che vuol dire dal punto di vista dei nostri parametri - ci saremmo aspettate.

Ci siamo imbattute in più di un caso in cui il prezzo della sposa tende ad accrescersi non in situazioni di arretratezza, ma al contrario in situazioni di innovazione, come ad esempio in corrispondenza dell'alto status sociale delle ragazze scolarizzate soprattutto a livelli universitari. È quanto ci ha fatto notare con un certo orgoglio una giovane nigeriana appena laureata per la quale la famiglia del marito ha dovuto offrire un brideprice molto alto, che fosse adeguato alla buona posizione sociale conquistata con i suoi studi.

È curioso come cambiamenti importanti sul piano dell'emancipazione diventino a volte maniere per rafforzare pratiche tradizionali che regolano la subordinazione delle donne. Ma questo fa parte del gioco, è una conferma delle maniere imprevedibili e contraddittorie in cui si realizzano le trasformazioni in società come quelle africane dove lo scontro tra tradizione e modernizzazione sta travolgendo vecchi equilibri.

12. Nigeriane e somale in Italia: due prospettive diverse

Come si è visto la ricerca condotta in Italia tra le immigrate nigeriane e somale ci ha permesso non solo di analizzare i problemi legati alle Mgf in un contesto di immigrazione, ma ha richiesto anche di mettere a fuoco una serie di questioni più generali che riguardano le situazioni locali nelle rispettive aree di appartenenza, data la grande influenza che queste continuano a esercitare attraverso la situazione di transemigrazione.

La ricerca ha preso atto soprattutto della grande diversità tra le due situazioni indagate. Per quanto riguarda la Nigeria, ha confermato le basse percentuali di donne operate e ha registrato almeno in area urbana una crescente disaffezione, che si esprime anche nell'abbassamento dell'età dell'operazione e nella progressiva deritualizzazione di tale pratica, mentre nelle campagne la situazione non sembra presentare elementi sostanziali di mutamento. In questo processo di distacco da tale pratica tradizionale sembra che un certo peso lo abbiano esercitato l'atteggiamento negativo delle chiese cristiane e le campagne di informazione promosse dal governo.

La conferma di un processo di erosione di legittimità delle Mgf viene anche dalla scomparsa di alcuni dei tratti principali che fanno parte del sistema economico e simbolico delle Mgf. In particolare, come si è appena accennato, il matrimonio precoce, l'età avanzata dello sposo e il matrimonio combinato, mentre altri tratti come la poligamia e il prezzo della sposa presentano una condizione di maggiore stabilità.

Dal quadro che viene fuori dalle interviste le Mgf non sembrano porre grandi problemi né a livello sanitario né a livello della vita di relazione. Nel contesto dell'immigrazione questa situazione trova conferma in una sorta di apertura e di disponibilità nei confronti delle opportunità di vita sociale e di relazione offerte dal contatto con la società di accoglienza. Benché prevalga una tendenza a frequentarsi tra loro, questo non costituisce una chiusura all'interno della comunità di appartenenza come è invece per le somale.

Questo dato è confermato dalla tendenza a contrarre relazioni o matrimoni al di fuori della comunità e frequentemente con italiani. Tali comportamenti non sono l'eccezione e testimoniano piuttosto un'apertura ai modelli occidentali, una disponibilità a un processo di acculturazione che spesso diventa occasione per riformulare il proprio progetto di vita fino alla scelta dell'Italia come proprio paese. Anch'esse sono delle trasmigranti, delle persone ubique, impegnate in una doppia vita tra il luogo di arrivo e quello di partenza, che le vede contemporaneamente protagoniste e partecipi di due società ognuna segnata da valori, mentalità e modelli diversi, raramente però tali da confliggere e diventare per loro un problema come invece sembra essere per le somale, vissuti piuttosto come una risorsa in più.

Totalmente diversa e assai più drammatica è infatti la situazione delle somale. Guerra e emigrazione costituiscono il quadro di riferimento che ha fatto da sfondo alla nostra ricerca, dal momento che tutte le intervistate sono persone in fuga da situazioni di fame e di terrore, che però mantengono una continuità di rapporto con i familiari e gli amici rimasti in Somalia, rapporto che spesso esercita un forte condizionamento sulle spinte al cambiamento e alla problematizzazione della propria situazione che possono venire dalla situazione di accoglienza.

Come si è già accennato, a limitare il processo di acculturazione interviene anche la società di accoglienza con i suoi modelli considerati troppo eversivi e permissivi, ma anche con un atteggiamento "umanitario" nei loro confronti che le irrita e le allontana dai nostri modelli. È lo statuto di vittime che rifiutano e che certamente non le aiuta nemmeno a liberarsene.

Come si sa fino a pochissimi anni fa le statistiche davano al 98 per cento la percentuale delle donne infibulate in Somalia. Oggi la situazione non è più così. Per due ordini di fenomeni, che hanno contribuito a bloccare in parte le infibulazioni: la guerra e l'espansione soprattutto al nord del fondamentalismo islamico. Ancor prima la precarietà della vita quotidiana in un regime di guerra aveva già ristretto i margini di disponibilità e le opportunità per realizzare una pratica così impegnativa a livello organizzativo, medico e finanziario come l'infibulazione, ma non ne aveva diminuito il tasso di investimento emozionale, soprattutto perché in regime di guerra si guarda all'infibulazione come a una forma di protezione dallo stupro. Una sorta di moratoria che può avere qualunque esito, può sia rafforzare la pratica, sia favorire un processo di distacco.

Come si sia ribaltata questa diversa situazione in Italia è difficile da capire e soprattutto dipende molto dalle strategie individuali di vita e di futuro. Nella situazione dell'immigrazione la maggioranza delle intervistate afferma di non avere fatto né di volere infibulare le proprie figlie. Un buon 60 per cento opta per la sunna, mentre un 10 per cento non intende procedere a nessun tipo di intervento. Questo mutamento di tendenza non ci pare tanto l'esito di una esposizione a un processo di acculturazione in cui si fanno propri o ci si avvicina ai modelli della società di accoglienza, quanto piuttosto il contraccolpo della situazione interna somala con cui, come abbiamo accennato, viene mantenuto un contatto costante secondo una condizione sempre più definita di transemigrazione.

Più che a una influenza dei modelli occidentali, sia diretta nella forma di una modernizzazione del proprio stile di vita, sia indiretta attraverso l'acquisizione mimetica di alcuni tratti culturali, questa tendenza ad abbandonare l'infibulazione ci sembra piuttosto l'effetto di una disaffezione o di una delegittimazione di una pratica che è stata sottratta alla sfera del sacro e ricondotta all'espressione di una tradizione retriva incompatibile con il progetto fondamentalista di islamizzare la modernità.

Al contrario delle nigeriane la comunità somala è chiusa su se stessa, ed esaurisce per la maggior parte delle intervistate la propria vita affettiva e di relazione. Il che le rende abbastanza impermeabili a un contatto con la società di accoglienza che vada oltre l'attività lavorativa.

Semmai i pochi contatti invece di incentivare lo scambio e il rapporto con la società di accoglienza sembrano piuttosto portare gran parte di loro a evitare ogni esposizione a uno stile di vita che viene giudicato negativamente. In questo atteggiamento ha certamente un peso la consapevolezza della diversità dei propri corpi e la tendenza a preservarli dal nostro sguardo e a sottrarli al nostro giudizio, per evitare pregiudizi e comportamenti stereotipati di cui ognuna di loro in varie occasioni ha fatto dolorosa esperienza.

A questo si aggiunge oggi l'abolizione dello status di rifugiato politico da parte italiana, che ha avuto come conseguenza una maggiore chiusura da parte delle somale che si sentono tradite da un paese che ha avuto un rapporto storico con la Somalia.

Soprattutto questo provvedimento ha innescato un processo di partenza massiccia delle/gli immigrate/i somale/i verso paesi in cui tale status è riconosciuto - come l'Olanda, l'Inghilterra, il Canada - con il risultato di avere più che dimezzato la loro presenza in Italia. Non solo, ma questo provvedimento ha cambiato il carattere dell'immigrazione somala in Italia, che non è più un'immigrazione stabile, e ha fatto dell'Italia un paese di transito verso paesi del Nord Europa e Nord America che offrono molte più opportunità sia formative che di lavoro.

 

*Tratto da "Antropologia delle mutilazioni genitali femminili. Una ricerca in Italia", a cura di Carla Pasquinelli, edito da AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo, 2000.