La legge giusta. Il trattamento giuridico delle mutilazioni dei genitali femminili*

di Tamar Pitch



La questione sul piano internazionale

In modo più o meno chiaro e cogente, la questione delle mutilazioni dei genitali femminili può ricadere nell'ambito delle previsioni normative di numerose dichiarazioni, patti e convenzioni internazionali, ratificati in Italia. Dalla Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) attraverso i Patti sui diritti civili e politici (1966) e sui diritti economici, sociali e culturali (1966), la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (1969), la Convenzione contro la tortura (1984), la Convenzione contro ogni forma di discriminazione contro le donne (1979, nota con l'acronimo Cedaw), la Convenzione sullo stato dei rifugiati (1956) per finire con la Convenzione sui diritti dell'infanzia (1990), la questione, pur non prevista esplicitamente, può essere ricompresa in numerosi articoli delle Convenzioni stesse. In particolare, vanno segnalati gli articoli 37 e 24, terzo comma, della Convenzione sui diritti dell'infanzia. Nel primo gli stati si impegnano a far sì che nessun/a bambino/a sia soggetto/a a tortura o a trattamenti e punizioni crudeli, inumani e degradanti. Nel secondo gli stati si impegnano ad abolire pratiche tradizionali contrarie alla salute di bambini/e.

La questione delle mutilazioni dei genitali femminili può altresì ricadere in previsioni normative incluse in patti e convenzioni regionali, come la Carta africana sui diritti umani e dei popoli (1981), i cui articoli rilevanti rispetto a questo tema sono l'art. 5 (contro ogni degradazione, umiliazione e trattamento degradante e disumano), l'art. 16 (sul diritto di ciascuno di godere del miglior livello di salute fisica e psichica ottenibile), l'art.18, terzo comma (contro ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne e per la tutela dei diritti di donne e bambini); la Carta dei diritti e del benessere dei bambini africani (ancora non ratificata), specialmente all'art. 21, primo comma, che impegna gli stati ad adottare misure per l'eliminazione di costumi e pratiche tradizionali nocive alla salute e allo sviluppo dei bambini; la Convenzione europea per la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali (1953); e la Carta sociale europea (1965).

La legislazione dei paesi europei

Solo Gran Bretagna e Svezia hanno un reato specifico di mutilazioni dei genitali femminili. Negli altri paesi europei esse invece possono integrare fattispecie di reato diverse, come lesioni gravi e gravissime, il tentato omicidio e naturalmente l'omicidio quando alle mutilazioni consegua la morte. L'unico paese in cui tuttavia si sono effettuati diversi processi per mutilazioni dei genitali è la Francia, che le ha perseguite secondo l'art. 312 del Codice penale che punisce la mutilazione, amputazione, privazione dell'uso di un membro o morte provocate volontariamente su minori di 15 anni, senza che l'autore l'abbia voluto intenzionalmente. Attorno ai processi celebrati in Francia si è acceso un ampio dibattito, su cui torneremo (cfr. Facchi, 1992).

Nei paesi europei (quasi tutti) dove non esiste legislazione specifica, l'iniziativa è dunque totalmente giudiziaria: laddove le mutilazioni venissero denunciate e perseguite, lo sarebbero grazie a interpretazioni giurisprudenziali che le facessero ricadere dentro fattispecie di reato esistenti. Sull'opportunità o meno di introdurre un reato specifico, richiesta avanzata in molti paesi europei da associazioni femministe, vi è un dibattito su cui si tornerà.

Le fattispecie di reato dentro cui le mutilazioni potrebbero ricadere sono d'altronde, come si diceva, diverse e varie. In Italia, per esempio, esse potrebbero configurarsi come lesioni, ma anche contravvenire all'art. 5 del Codice civile (atti di disposizione del proprio corpo) o rientrare tra gli abusi e i maltrattamenti nei confronti dei minori.

La Svezia è stato il primo paese ad adottare una legislazione specifica (1983), secondo cui qualsiasi forma di mutilazione dei genitali femminili è punibile con un massimo di due anni di prigione. La pena è maggiore se dalla mutilazione deriva pericolo di morte.

La Gran Bretagna legifera su questo punto nel 1985 con la legge "Proibizione della circoncisione femminile". Più precisamente, la legge considera reato "tagliare, infibulare o in qualsiasi modo mutilare le grandi e piccole labbra in tutto o in parte e la clitoride; aiutare, consigliare o procurare la pratica da parte di un'altra persona di qualsiasi di questi atti sul corpo di un'altra persona". La pena prevista è la prigione fino a cinque anni o una multa o ambedue. Né in Svezia né in Gran Bretagna ci sono mai stati processi secondo queste leggi.

Oltre al versante giuridico più specificamente penale tuttavia, le mutilazioni potrebbero essere contemplate da altre misure, in primo luogo quelle che si riferiscono alla tutela dei minori. In Gran Bretagna per esempio l'art. 47, primo comma, del Children's Act del 1989 obbliga le autorità locali a investigare qualora abbiano il sospetto che un bambino ricadente nella loro giurisdizione sia a rischio di subire un danno o un'ingiuria e, in tal caso, a prendere le misure necessarie compresa la sospensione della potestà genitoriale. Indubbiamente, la giustizia minorile prevede anche in Italia obblighi di questo genere, a carico di servizi sociali, medici, operatori scolastici, ecc.

Su un altro versante i codici deontologici dei medici vietano esplicitamente qualsiasi intervento non giustificato da ragioni sanitarie.

Paesi extraeuropei

Alcuni dei paesi africani e asiatici dove le mutilazioni dei genitali femminili sono pratica tradizionale diffusa ed estesa la vietano esplicitamente: ma il diritto ufficiale, statale, confligge qui con il diritto consuetudinario, ben più cogente e vincolante. Si è dunque in presenza di un pluralismo giuridico già nei paesi di origin, che dà luogo a un pluralismo, e a un conflitto normativo, ancora più acuti nei paesi di accoglienza.

La contraddizione tra sistemi normativi diversi nei paesi di origine è esemplificata dal caso dell'Egitto, dove il divieto ufficiale è stato dapprima abolito, introducendo il permesso di effettuare le mutilazioni in ospedale, e poi, a seguito di pressioni da parte di associazioni e gruppi, reintrodotto. La questione della cosiddetta "medicalizzazione", ossia la scelta di delegare le mutilazioni a medici e ospedali per ovviare ai danni più gravi e immediati della pratica è anch'essa stata questione controversa, ormai virtualmente risolta per via della sua condanna pressoché universale, con prese di posizione anche dell'Oms, l'Organizzazione mondiale della sanità (1982), sia perché implicitamente legittimatrice della pratica stessa, sia perché contrastante con la deontologia medica.

Stati Uniti, Canada, Australia non hanno, coma la gran parte dei paesi europei, un reato specifico, benché proposte di legge in questo senso siano state introdotte a livello federale negli Usa. Da notare tuttavia il caso della donna togolese cui negli Usa è stato accordato lo status di rifugiata in quanto a rischio di mutilazione nel suo paese di origine. Un caso di questo genere è avvenuto anche in Francia.

Sul piano dunque della legislazione si confrontano due posizioni. Secondo la prima, ancora la più diffusa, non si fa ricorso — e non si ritiene che sia necessario far ricorso - a una figura autonoma di reato, le mutilazioni genitali ricadendo dentro altre fattispecie di reato. La seconda posizione, finora appannaggio di pochi stati, viene avanzata sempre più pressantemente da molte associazioni, lobbies, parlamentari in diversi paesi e sottolinea la necessità della previsione di una figura autonoma di reato.

Sulle due opzioni ci soffermeremo più avanti.

Processi e giurisprudenza

Come si diceva, gli unici processi per mutilazioni dei genitali femminili si sono celebrati finora in Francia, dando luogo a contrasti e dibattiti (cfr. Facchi, 1992). Nel 1983, una sentenza della Corte di Cassazione francese stabiliva che l'escissione doveva considerarsi una mutilazione ai sensi dell'articolo 312 del Codice penale secondo cui sono punibili con il carcere a vita genitori che siano autori di mutilazioni di membri o organi dei figli e con una pena dai 10 ai 20 anni di reclusione in caso di complicità. Su questa base sono stati celebrati un certo numero di processi a carico dei genitori e "complici", ossia persone che avevano di fatto compiuto la mutilazione. I processi si sono tutti conclusi con lievi condanne, sospese, ossia non eseguite.

Molte questioni controverse sono emerse nei dibattiti attorno a questi processi. In primo luogo, la questione relativa all'ignoranza della legge. Per un verso le persone processate mostravano perlopiù scarsa, se non inesistente, conoscenza non solo delle norme, ma addirittura della lingua francese. Per un altro verso, l'inesistenza di un reato specifico nel Codice penale rimandava l'esistenza stessa della fattispecie di reato a un'interpretazione giurisprudenziale. Che la mutilazione tradizionale potesse considerarsi reato ai sensi del diritto francese era ben difficile che fosse noto quantomeno alla prima imputata (una donna proveniente dal Mali, che non parlava nemmeno il francese). Se questo primo problema (che, dal punto di vista giuridico, ha a che fare con la questione della presunzione di conoscenza della legge) può dirsi in qualche modo risolto con il primo procedimento, altri ne sono stati sollevati che riguardano più in generale l'adeguatezza e l'opportunità del ricorso al penale in questa materia e vanno quindi aldilà dello specifico contesto francese.

In primo luogo, la mancanza di dolo. I genitori che effettuano le mutilazioni sulle figlie non solo non pensano di "far male": sono convinti di agire per il bene delle figlie. Questa convinzione è sorretta d'altra parte da elementi di fatto, documentati da etnologi e antropologi: le ragazze non mutilate rischiano l'isolamento dalla loro comunità, non "possono trovare marito", non sono considerate veramente donne.

In secondo luogo, il conflitto normativo: la pratica delle mutilazioni genitali si presenta come una tradizione con forti connotati normativi. Non solo "si è sempre fatto così", ma "così si deve fare". Come nota Facchi (1992), la sanzione della trasgressione della consuetudine non è soltanto mortale, ma sociale, concretizzandosi appunto nell'isolamento delle ragazze non mutilate. La norma consuetudinaria si rivela dunque più cogente e vincolante non solo di quella del paese di accoglienza, ma anche di quella ufficiale del paese di origine, quando essa (come nel caso del Mali) vieti le mutilazioni. La sanzione della trasgressione della norma consuetudinaria è vissuta come ben più pesante di quella che eventualmente segue la trasgressione della norma ufficiale.

Un'ulteriore questione riguarda la protezione dell'interesse delle vittime, che è l'argomentazione principale di chi sostiene l'adeguatezza e l'opportunità dell'applicazione del diritto penale in questa materia. Il diritto si pone infatti a tutela dell'integrità fisica e psichica, entrambe minacciate dalla mutilazione.

Tuttavia, benché naturalmente siano indiscutibili i gravi danni dell'operazione, non è così certo quale sia l'interesse delle vittime. Quando il progetto migratorio è temporaneo, il danno che a una donna non mutilata rientrata nella comunità d'origine deriva dall'isolamento sociale potrebbe essere maggiore del danno dell'operazione. C'è inoltre il rischio che ragazze non mutilate subiscano l'operazione in età più adulta, una volta rientrate definitivamente nei paesi d'origine, o durante una vacanza in patria. Ma anche laddove il progetto migratorio sia definitivo, se l'integrazione nella collettività di accoglienza è difficile, l'isolamento dentro la propria comunità potrebbe essere concepito come fortemente lesivo dell'interesse delle ragazze.

L'argomentazione dunque in appoggio a un uso del penale in questa materia sulla base della tutela dell'interesse delle vittime si presenta come controversa: dipende da che cosa e come si intende l'interesse, e ha in realtà a che vedere con l'interpretazione che si dà del rapporto tra individuo e cultura d'origine e individuo e cultura d'accoglienza, nonché naturalmente con le politiche rivolte agli immigrati. E bensì plausibile, viceversa, e vi sono riscontri in questo senso, che laddove il processo di integrazione nella collettività di accoglienza sia reale (tramite la scolarizzazione, l'accesso ai servizi sanitari e sociali, ecc.), le mutilazioni subite o minacciate comincino a venire vissute come inaccettabile differenza e ostacolo a un'integrazione effettiva. Da questo punto di vista, l'argomentazione in nome dell'interesse delle vittime diventa convincente e cogente.

Più in generale, i dibattiti attorno a questi processi evocano una questione su cui si tornerà: ossia, la funzione attribuita al diritto, e al diritto penale in particolare. Deve il diritto assolvere a una funzione repressiva o a una funzione promozionale? Quale funzione è maggiormente adeguata alla materia in esame? Quali strumenti giuridici sono più adeguati a quale funzione?

La situazione in Italia

A tutt'oggi si ha notizia di una sola sentenza pronunciata dal tribunale di Milano, per lesioni, ai sensi degli artt. 582 e 583 del Codice penale. Un'italiana, moglie separata di un egiziano, aveva denunciato (1997) l'ex marito per aver sottoposto a mutilazioni dei genitali i due figli, un maschio (5 anni) e una femmina (10 anni), durante una vacanza presso i parenti di lui in Egitto. La donna per motivi di lavoro era dovuta rimanere a Milano, ma al ritorno, insospettita dal cattivo stato di salute della bambina (emorragia, infezioni e febbre) si è accorta di quanto era successo.

La donna ha presentato subito una denuncia e il 25 novembre 1999 si è svolto a Milano il processo che ha visto il padre accusato di lesioni personali gravissime. È stato questo il primo processo in Italia per un fatto del genere. L'uomo è stato condannato a due anni di reclusione.

Una breve inchiesta presso la Procura e il Tribunale per i minorenni di Roma, e una ricerca presso alcune procure ordinarie italiane non ha rivelato altri casi del genere. Se tuttavia sono attendibili le stime ipotizzate da alcune studiose, sarebbero invece molte le bambine mutilate residenti in Italia, e ancora di più le bambine a rischio di essere mutilate. A quanto pare, come anche ebbe occasione di dire la ministra Livia Turco rispondendo a un'interrogazione parlamentare sulla questione nel 1999, le bambine vengono mutilate durante i soggiorni nei paesi di origine o da "operatrici tradizionali" itineranti. Non risulta che vi siano implicati medici o strutture sanitarie italiane, benché si parli di cliniche private dove opererebbero medici somali o italo-somali.

Giacché le operazioni comportano spesso conseguenze fisiche rilevanti, ci si può chiedere come mai non vi siano state a tutt'oggi denunce o segnalazioni da parte di medici, pediatri, operatori scolastici e dei servizi, in questo momento piuttosto solerti nel denunciare sospetti maltrattamenti o abusi sessuali a carico dei minori.

In Italia, in assenza di una figura autonoma di reato le mutilazioni (secondo anche la ministra Turco) sono perseguibili ai sensi dell'art. 5 del Codice civile (divieto di atti di disposizione del proprio corpo), dell''art. 583 del Codice penale (lesioni gravi e gravissime), dell'art. 32 della Costituzione (diritto alla salute).

L'inesistenza di una figura autonoma di reato può d'altra parte avere un'influenza sull'assenza di denunce. Per quanto riguarda gli appartenenti alla comunità coinvolta, ciò infatti può essere dovuto sia, com'è più probabile, alla coesione della comunità stessa e all'alto grado di consenso e accettazione della pratica, che si configura, come si diceva, come un vero e proprio dovere (anche giuridico, o comunque normativo), ma anche, quando alcune o alcuni, più coinvolte nel processo di assimilazione nella collettività d'accoglienza, cominciano ad avere dubbi o a dissentire, al non avere un appiglio sicuro nella legislazione italiana, un divieto esplicito cui appellarsi per rifiutare le mutilazioni sulle proprie figlie.

Quanto agli operatori sanitari, sociali, scolastici: la non conoscenza della questione gioca certamente un ruolo; può supporsi che giochi un ruolo una sorta di accettazione passiva di un "costume" straniero, non esplicitamente previsto come reato dalle nostre leggi; l'assenza di dolo può contribuire a non far percepire la pratica come integrante abusi o maltrattamenti nei confronti di minori (sebbene, ai sensi delle nostre leggi minorili, abusi che possono configurare una situazione di "stato di abbandono" tale da richiedere l'intervento della giustizia minorile non devono necessariamente essere "intenzionali").

Gli articoli 330 (decadenza della potestà sui figli) e 333 (condotta del genitore pregiudizievole per i figli) del Codice civile danno al giudice minorile la facoltà di allontanare i figli dai genitori, con decadenza della potestà nei casi più gravi, o comunque di adottare "provvedimenti convenienti" quando la condotta di uno o entrambi i genitori sia pregiudizievole al/la figlio/a. Queste norme potrebbero essere invocate per la tutela delle bambine "a rischio", ai cui genitori potrebbero essere date prescrizioni specifiche per impedire loro di mutilarle. Che non vi siano (ancora) casi di questo genere fa pensare a una diffusa ignoranza, indifferenza o difficoltà a inquadrare la questione entro le "condotte pregiudizievole" ai minori.

Se e come perseguire penalmente

Come si è visto, che siano o no previste in figure autonome di reato, le mutilazioni sessuali sono perseguibili penalmente. Prima ancora di discutere gli eventuali vantaggi o svantaggi di una legge penale ad hoc, conviene ragionare sull'adeguatezza e l'opportunità dell'impiego del diritto penale in questa materia.

Costruire un problema come reato (o perseguirlo su questa base) significa ritenere che la risposta penale sia la più adeguata. Ma adeguata a quali obiettivi? Ve ne sono tre possibili, intrecciati: 1) la diminuzione del problema, attraverso la minaccia della pena; 2) il riconoscimento simbolico del problema come un "male"; 3) il mutamento degli atteggiamenti e delle norme culturali relative a quel problema. Questi tre obiettivi fanno riferimento alle tre funzioni comunemente attribuite al diritto penale: la prevenzione generale; il riordinamento simbolico dei beni protetti in una certa collettività; la funzione pedagogica.

Primo punto: la minaccia della pena è tanto più efficace quanto più la pena sia certa e superi i vantaggi della commissione del fatto. Nessuna delle due condizioni sembra darsi in questo caso (come in moltissimi, altri del resto), a meno di non auspicare un sistema punitivo non solo celere ma anche con sanzioni assai alte e applicate effettivamente, tali da scoraggiare da un atto che si considera come necessario al bene delle proprie figlie. La minaccia della pena, inoltre, soprattutto quando la pena minacciata fosse severa, potrebbe (come di fatto avviene in molti altri casi) contribuire alla chiusura della comunità coinvolta su se stessa e alla ancora maggiore "clandestinizzazione" delle condotte: per esempio, potrebbe ulteriormente scoraggiare dal ricorso a strutture sanitarie in presenza di complicazioni successive alle mutilazioni.

Secondo punto: il riconoscimento simbolico di un fatto come "male" avrebbe, in questo caso, una sua utilità presso la collettività di accoglienza, disponendola a riconoscere le mutilazioni come inaccettabili secondo i modelli culturali prevalenti: ma è dubbio che avrebbe la stessa utilità presso la comunità coinvolta nelle pratiche, a meno che essa non fosse già disposta culturalmente in questo senso. Potrebbe, viceversa, contribuire all'isolamento di questa comunità dalla collettività di accoglienza, segnando un forte discrimine tra "noi" (che condanniamo la pratica) e "loro" (per cui è norma vincolante). La previsione di una figura autonoma di reato, se rafforzerebbe il potenziale simbolico della proibizione (rendendola oltre tutto chiara e tassativa, non lasciandola quindi ad una interpretazione giurisprudenziale) presso di "noi", potrebbe essere vissuta dalla comunità coinvolta come una discriminazione intesa precisamente e solamente nei suoi confronti.

Terzo punto: la funzione "pedagogica" è tale quando la criminalizzazione o l'effettiva persecuzione di un fatto come reato è preceduta e accompagnata da un ampio dibattito pubblico, tale da coinvolgere come partecipanti attivi tutti gli attori rilevanti: il caso della campagna per una nuova legge sulla violenza sessuale mostra come atteggiamenti e modelli culturali in ordine a questo fenomeno siano effettivamente cambiati nel corso dei sedici anni di campagna stessa, a prescindere dal risultato legislativo, in verità assai discutibile. Ma ciò che questo esempio insegna, è che ciò che è efficace, più che la norma di per sé, è il dibattito che la precede. Tanto più questo dovrebbe essere vero, quanto più gli attori cui il mutamento normativo o giurisprudenziale in materia di mutilazioni configurano una comunità particolare, dotata di sue norme e modelli culturali. La funzione pedagogica di una norma in quanto tale in un caso del genere potrebbe essere allora vissuta come autoritaria, discriminatoria, paternalista.

Rispetto alla richiesta avanzata in diversi paesi di prevedere una figura di reato autonoma e specifica: certamente, in questo modo il potenziale simbolico del penale sarebbe sfruttato di più, e il dibattito per giungere a una legge in materia potrebbe avere una funzione "pedagogica". Inoltre, se ci fossero dissensi nella comunità coinvolta, ciò renderebbe più semplice a chi volesse sottrarre le figlie alle mutilazioni appellarsi all'esplicito divieto legislativo. Come già si è detto, ciò potrebbe condurre a una maggiore attenzione alla questione gli operatori sanitari, sociali e scolastici, i quali sarebbero indotti a una attività di prevenzione e tutela delle bambine "a rischio". Ritengo tuttavia condivisibile l'opinione della ministra Turco, esposta nella risposta all'interpellanza parlamentare già citata, secondo cui una legge ad hoc avrebbe senso solo qualora fosse richiesta dall'interno della comunità coinvolta. In assenza di richieste del genere, ossia in assenza del manifestarsi di un pluralismo di atteggiamenti indice di qualche disponibilità della comunità a mettere in discussione il proprio diritto consuetudinario, la legge sarebbe una semplice legge "manifesto", priva di efficacia e presumibilmente produttrice delle conseguenze perverse già accennate (chiusura della comunità su se stessa, vissuti di discriminazione, clandestinizzazione ulteriore delle condotte, isolamento accentuato).

Non sembra un caso del resto che, laddove esiste una figura autonoma di reato, non vi siano stati processi. Implicitamente, si è scelto di criminalizzare ma di non perseguire. In Francia, dove si è scelto di perseguire, si è tuttavia scelto di non punire (le pene comminate sono state lievi e sospese). Per quanto riguarda Svezia e Gran Bretagna, l'esistenza di una figura autonoma di reato non sembra aver dato luogo a una sensibilizzazione tale da provocare denunce. Non sappiamo tuttavia se e quanto invece questa esistenza sia stata efficace nel fornire a eventuali dissidenti della comunità un appiglio per rifiutare la pratica.

In ambedue i casi sembra prevalere un uso del potenziale simbolico del penale, piuttosto che un uso della sua funzione deterrente. Il rischio in questi casi è che questo potenziale si dispieghi in funzione meramente dichiarativa (le "leggi manifesto"), come autolegittimazione del paese e del governo che promulga la norma, piuttosto che in funzione "pedagogica". Con la conseguenza di delegittimare la norma (e lo stesso sistema giuridico), quando essa resti lettera morta, non venga o non possa essere applicata.

Il problema è appunto quello dell'applicazione. Perseguire e punire questa pratica non è solo difficile, potrebbe essere inopportuno e controproducente, come già si è detto, quando non vi è consenso e sensibilizzare da parte della comunità coinvolta. L'approvazione allora di una norma che crei una figura autonoma di reato, senza che vi sia la volontà e la possibilità di applicarla, potrebbe a sua volta essere controproducente, incrementando il discredito del diritto in generale e di questa norma in particolare.

Se l'utilizzazione del diritto penale appare dunque foriera di rischi e contraddizioni, ciò non significa tuttavia che si debba rinunciare a legiferare in questa materia. Disposizioni circa campagne di informazione, per sostegni a organizzazioni e gruppi, per politiche pubbliche dirette a migliorare i processi di integrazione individuale e collettiva, per aiuti a chi voglia sottrarsi alla pratica sono misure "indirette" che potrebbero però incidere sulle condotte concrete più di divieti simbolici di fatto inapplicati.

I progetti di legge in Italia

Due proposte di legge sostanzialmente simili sono state presentate in questo ultimo anno in Italia. Mentre la relazione che accompagna la prima (n. 5819) sembra preoccuparsi più che altro del buon nome dell'Italia, la seconda relazione (n. 4249) appare attenta alle questioni di fatto, ossia al problema dell'informazione, della prevenzione, dell'educazione, alla necessità di non discriminare e isolare.

Sostanzialmente, le due proposte introducono alcune modifiche agli articoli 572 (maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli) e 582 (lesione personale) del Codice penale tali da includere esplicitamente le mutilazioni; dispongono che i consultori familiari si attivino informando su questa materia gli immigrati; che informazione venga data anche alle frontiere circa i diritti di donne e minori nel nostro paese; fanno obbligo agli operatori sanitari e dei servizi di denunciare quando vengano a conoscenza di mutilazioni avvenute; prevedono l'espulsione degli stranieri soggiornanti in Italia che siano tornati nel loro paese per compiere le mutilazioni sottraendosi alla legge italiana.

Le proposte appaiano tutto sommato ragionevoli, poggiando piuttosto sulla prevenzione che sulla repressione, o meglio facendo seguire la repressione a un'opera di educazione e informazione. Semmai, le disposizioni previste per queste due politiche possono essere considerate ancora non sufficienti e adeguate.

 

*Tratto da "La legge giusta. Il trattamento giuridico delle mutilazioni dei genitali femminili", pubblicazione dell'AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo, 2000.