Differenza di genere e razzismo: la sfida della complessità1

di Chiara Ingrao

I. Introduzione
L’integrazione di un punto di vista di genere in tutte le politiche e le azioni contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza, comporta alcune importanti implicazioni:

1. riconoscere il ruolo che ha il sessismo come componente essenziale di tutte le forme di razzismo
2. identificare i volti molteplici della discriminazione
3. dare forza alle donne in quanto soggetti centrali nella lotta al razzismo
4. adottare un giusto insieme di politiche e di azioni finalizzate
5. integrare le tematiche della differenza di genere nel processo di preparazione e nella struttura della Conferenza mondiale contro il razzismo.

In questa relazione mi propongo di sviluppare i cinque punti sopraelencati, presentando inoltre uno “studio di caso” su come essi si applicano alla situazione di un gruppo molto frequentemente preso di mira2 dalle discriminazioni e dai pregiudizi razzisti e xenofobi: le donne migranti.

1. Riconoscere il ruolo che ha il sessismo come componente essenziale di tutte le forme di razzismo

Per combattere non solo le manifestazioni di razzismo, ma le sue radici, è essenziale riconoscere che il sessismo non è un fattore aggiuntivo di discriminazione, ma una componente essenziale di tutte le forme di razzismo.
Il razzismo infatti interpreta tutte le differenze etniche, culturali, religiose, e in generale la diversità fra esseri umani, secondo parametri di superiorità/inferiorità in base ai quali un gruppo di persone, e solo quello (quello cui appartengono o ritengono di appartenere i razzisti) è ritenuto superiore a tutti gli altri. L’idea della superiorità del maschile sul femminile è parte integrante di questa scala di “valori”, e non a caso viene continuamente ribadita dai razzisti, sia nei loro comportamenti nei confronti delle donne appartenenti a gruppi “inferiori” che nell’atteggiamento nei confronti delle donne del proprio gruppo, e nello stesso rapporto con la propria identità maschile.
Nella società contemporanea uno degli elementi trainanti nella crescita di movimenti razzisti e nel consenso tacito che essi raccolgono, è infatti proprio la profonda crisi dell’identità maschile, prodotta dai massicci mutamenti sociali, culturali e comportamentali che hanno caratterizzato il “secolo delle donne”. Avviene insomma che alcuni uomini (spesso giovani uomini), che in quanto individui si sentono incerti della propria identità e del proprio ruolo, e minacciati dalla portata e dall’entità dei mutamenti socio-culturali che li circondano, cerchino rifugio in quelle ideologie che forniscono loro un’identità di gruppo forte e aggressiva, e una visione semplicistica della propria superiorità sul resto del mondo.
Il ruolo svolto dalla sessualità e dalle aggressioni sessuali in molte forme di razzismo è un indicatore chiave di questo problema. Come ha sottolineato bell hooks, «la sessualità ha sempre fornito metafore della colonizzazione connotate dalla differenza di genere. I paesi liberi rappresentati come uomini liberi, il dominio rappresentato come castrazione, perdita di virilità e stupro – l’atto terrorista tramite il quale si rimette in scena il dramma della conquista, con gli uomini del gruppo dominante che violano sessualmente i corpi delle donne dei dominati»3.
Il ruolo della sessualità e del sessismo è stato analizzato anche da studiosi delle forme più estreme di razzismo, quali il nazionalismo etnico e l’uso che da essi è stato fatto dello “stupro etnico”. La filosofa croata Rada Ivekovic ha sottolineato il ruolo simbolico delle donne e del corpo femminile come “spazio” in cui si incontrano le diversità e si verifica la “contaminazione”, affermando che: «è questo incontro, questo “mischiarsi” – che le donne accettano, creano e rappresentano (come principio femminile) – che viene combattuto nella donna da coloro che vogliono purificare le loro origini, “liberarle” dall’Altro, negare l’Altro»4.

E ancora, in un libro illuminante, non a caso intitolato Prospettive sulla guerra civile, Hans Magnus Enzensberger riflette sulle analogie fra queste e altre forme di violenza metropolitana, di aggressioni all’Altro, e ci ricorda che «Gli aggressori sono quasi tutti esclusivamente giovani. Il loro comportamento rivela quanto il patriarcato sia ormai eroso. Fra le sue tradizioni più antiche, vi erano le cosiddette associazioni maschili [in cui...] il futuro “macho” veniva sottoposto a prove di coraggio ed esibizioni di forza, durante le quali doveva attenersi a un ferreo codice d’onore. [...] Agli odierni fautori della violenza simili idee sono del tutto estranee. È una virilità nuova quella che si manifesta in loro. Potremmo dire che il loro onore si chiama viltà»5.
Questi e molti altri possibili esempi ci portano alla conclusione che nell’analisi del razzismo adottare un “punto di vista di genere” significa occuparsi in primo luogo non tanto del genere (femminile) di molte delle sue vittime, quanto del genere (maschile) non solo di molti razzisti, ma della cultura razzista in quanto tale.
Tutte le azioni e le politiche di lotta al razzismo non riusciranno ad essere efficaci se non si misureranno direttamente con il ruolo fondante che nella costruzione del razzismo questa tematica di genere (maschile).


2. Identificare i volti molteplici della discriminazione
Come ricorda il documento preparatorio della nostra riunione, molti organismi internazionali, quali ad esempio il Comitato contro la discriminazione razziale (CERD), hanno riconosciuto che «la discriminazione razziale non sempre colpisce uomini e donne allo stesso modo o in egual misura. Esistono circostanze in cui la discriminazione razziale colpisce esclusivamente o precipuamente le donne, oppure colpisce le donne in maniera diversa o in misura diversa rispetto agli uomini»6 e che «le donne possono anche incontrare ulteriori ostacoli per l’impossibilità di ottenere accesso a meccanismi di ricorso e di riparazione legale contro la discriminazione razziale a causa di impedimenti correlati al loro genere, quali i pregiudizi sessisti esistenti nel sistema giuridico e la discriminazione contro le donne nella vita privata»7.
Altri aspetti indicati da questi organismi come discriminazioni razziali legate alla differenza di genere comprendono: gli stereotipi negativi e il ruolo del sessismo nel connotarli; le discriminazioni in materia di ricongiungimento familiare, diritto di famiglia e diritti delle donne nei matrimoni misti; la violenza sessuale, le molestie ed altri abusi sessuali con motivazioni razziste; la tratta delle donne; la negazione della parità di diritti e gli abusi nei confronti delle lavoratrici del settore informale; altre questioni che riguardano la posizione specifica delle donne rifugiate, immigrate, appartenenti a minoranze nazionali o religiose, indigene, rom e sinti, ecc.
L’identificazione di queste diverse categorie di discriminazione e delle persone che ne vengono colpite, chiaramente non rappresenta solo un elenco, ma piuttosto un tentativo di identificare l’estrema complessità dele forme contemporanee di razzismo, e pertanto la necessità, per sconfiggerlo, di mettere in campo un insieme di politiche assai complesso.
Adottare politiche complesse e diversificate significa anche integrare in questa complessità una maggiore comprensione delle implicazioni che ha la discriminazione “multipla”. Discriminazione multipla, infatti, non significa fare una sommatoria di diversi fattori di discriminazione: come dice la parola stessa, si stratta piuttosto di un processo di moltiplicazione, in cui ciascun fattore moltiplica gli effetti negativi di tutti gli altri.
In questo processo, è importante essere coscienti di quanto sia diversificata la percezione soggettiva di come interagiscono uguaglianza fra i sessi e altri obiettivi di uguglianza. La differenza di genere è certamente una differenza universale, trasversale a tutti gli altri fattori di diversità e non assimilabile a nessuno di essi: in quanto tale, la differenza sessuale non può essere considerata “uno dei tanti” fattori di discriminazione. Detto ciò, le discriminazioni concrete che vivono quotidianamente le donne dei gruppi presi di mira, portano molte di queste donne a non considerare prioritarie le questioni legate alla differenza di genere; anzi, a considerare il genere piuttosto come un fattore “secondario”, a fronte di temi quali il razzismo, la xenofobia, le discriminazioni in campo economico. Di conseguenza:
- le politiche di parità e pari opportunità rivolte a donne che subiscono anche discriminazioni razziali possono risultare non efficaci, e anzi possono anche essere percepite come “ostili” dalle dirette interessate, se tali politiche non affrontano anche la fonte “principale” di disuguaglianza, che è la discriminazione razziale;
- le politiche antirazziste che non tengono conto della differenza di genere non risulteranno efficaci nell’affrontare le forme specifiche di discriminazione che colpiscono principalmente le donne, o che colpiscono le donne in maniera diversa o in misura diversa rispetto agli uomini.
Costruire politiche efficaci, sia in materia di uguaglianza fra i sessi che di lotta al razzismo, è dunque possibile solo se si affronta l’interazione fra queste due forme di discriminazione.


3. Dare forza alle donne in quanto soggetti centrali nella lotta al razzismo
Le donne non sono solo vittime di discriminazioni, ma soprattutto protagoniste attive della lotta contro il razzismo. Come sottolinea Amartya Sen, «Non più beneficiarie passive di aiuti, le donne sono considerate sempre più frequentemente, sia dagli uomini che dalle donne stesse, come soggetti attivi del cambiamento: promotrici dinamiche di trasformazioni sociali che possono cambiare le vite sia degli uomini che delle donne»8.
Queste considerazioni valgono non solo per le militanti della lotta al razzismo, ma per tutte le donne che appartengono ai gruppi presi di mira, e che hanno sviluppato proprie strategie autonome di sopravvivenza e/o resistenza attiva contro il razzismo. Una comprensione più approfondita di questa vasta gamma di strategie individuali, concrete, di resistenza al razzismo, sarebbe molto utile per elaborare strategie e politiche istituzionali che non ignorino, ostacolino o addirittura entrino in conflitto con queste esperienze di quotidianità, ma al contrario si fondino su di esse, dando forza e autorevolezza (quello che in gergo chiamiamo empowerment) ai soggetti che ne sono protagonisti.
Parallelamente, una comprensione più approfondita della multiformità e diversità di esperienze che caratterizza le donne, non solo di diversi gruppi presi di mira, ma anche all’interno delle stesse comunità (differenze di età, di cultura, di classe sociale, di contesto familiare e lavorativo, di personalità, ecc.) può essere molto utile a elaborare politiche e iniziative che non si limitino a proclamare principi astratti, ma che mirino ad applicarli nella realtà.
In questo lavoro di empowerment, ha svolto un ruolo molto importante l’associazionismo, che ha fornito alle donne strumenti e percorsi per far valere i propri diritti, conquistare visibilità e fiducia in se stesse, costruire solidarietà, sviluppare modelli di riferimento positivi e strategie innovative. Mi riferisco sia alle militanti delle associazioni anti-razziste e per i diritti umani, sia alle associazioni autonome di donne appartenenti a gruppi presi di mira dal razzismo, sia più in generale ai vari gruppi di donne, in quanto tutte queste diverse realtà promuovono idee, e praticano forme di partecipazione, il cui obiettivo è promuovere l’uguaglianza, l’empowerment individuale e collettivo, l’impegno a combattere alle radici i fondamenti culturali sia del razzismo che del sessismo.
Per tutti questi motivi, un aspetto importante delle strategie di empowerment è l’empowerment della società civile e dell’associazionismo, in termini di accesso, da parte di questi soggetti organizzati, a risorse, canali di finanziamento, spazi sui media, luoghi decisionali.


4. Adottare un insieme di politiche e di azioni finalizzate
La Conferenza europea contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza ha elaborato un insieme ampio e diversificato di proposte politiche9, nel tentativo di fare i conti con tutte le complesse sfide che caratterizzano il razzismo nel mondo contemporaneo. Perché il punto è proprio questo: mentre il razzismo semplifica la realtà, la appiattisce, tentando di espellere, annientare o dominare tutte le diversità, le politiche di lotta al razzismo dovrebbero avere il fine esattamente opposto – valorizzare le diversità e la complessità come fattori essenziali per la vitalità, la creatività, il dinamismo di ogni società.
Come ha affermato la Conferenza europea, ciò comporta agire a diversi livelli: dalla tutela giuridica all’iniziativa politica, dalle politiche del lavoro a quelle su immigrazione e asilo, dal lavoro di formazione, informazione e sensibilizzazione all’impegno a stimolare la partecipazione dal basso. Non è possibile, nel contesto di questo intervento, illustrare tutte le azioni che la Conferenza europea ha raccomandato ai diversi soggetti, e in primo luogo ai governi. Per sintetizzarle, possiamo dire che una politica di lotta all’intreccio fra razzismo e sessismo dovrebbe tenere conto dei seguenti punti:
- sono necessarie iniziative specifiche di contrasto contro le forme specifiche di discriminazione che colpiscono in primo luogo le donne; nel contempo, tutte le politiche antirazziste dovrebbero tener conto della differenza fra i sessi, ed essere elaborate, attuate e monitorate con una piena partecipazione delle donne;
- per rispondere alle esigenze diverse dei diversi gruppi presi di mira dal razzismo è necessario elaborare politiche e azioni differenziate e mirate10
- se è essenziale garantire la protezione da ogni forma di discriminazione (non solo a livello normativo, ma anche in campo sociale e economico), è altrettanto importante garantire a tutte e tutti l’accesso concreto all’esercizio dei diritti e alle risorse (economiche, girudiche, politiche, culturali, sociali), e mezzi concreti per far valere i propri eguali diritti sia in quanto donne che in quanto componenti di gruppi presi di mira;
- un altro fattore essenziale per garantire l’efficacia delle politiche adottate, è il coinvolgimento dell’associazionismo, e in particolare delle associazioni cui partecipano e dove hanno un ruolo dirigente le donne direttamente colpite dal razzismo;
- disporre di politiche e leggi che colpiscano la discriminazione a tutti i livelli, e che tengano conto della differenza di genere, è certamente necessario, ma non sufficiente; colpire il razzismo alle sue radici implica anche un ruolo attivo di promozione dell’eguaglianza, di prevenzione e rimozione di tutte le situazioni di disuguaglianza, e comporta la capacità di valutare l’impatto delle politiche sulle condizioni concrete di vita;
- per compiere passi in avanti in questo campo, è necessaria una valutazione approfondita dei risultati ottenuti dalle cosiddette “azioni positive”, adottate in molte parti del mondo per garantire sia i diritti delle minoranze sia i diritti delle donne.


5. Integrare le tematiche della differenza di genere nel processo di preparazione e nella struttura della Conferenza mondiale contro il razzismo
Per garantire che i temi qui esaminati siano adeguatamente trattati e affrontati nella Conferenza mondiale contro il razzismo, essi vanno integrati nel lavoro preparatorio e anche nella struttura della Conferenza stessa:
- gli oratori devono comprendere, in misura paritaria fra i due sessi, donne e uomini appartenenti ai gruppi presi di mira dal razzismo (migranti, neri, minoranze etniche e religiose, ecc.);
- in tutte le delegazioni nazionali devono essere presenti le donne, con un’attenzione particolare alla presenza di donne appartenenti ai gruppi presi di mira dal razzismo;
- alcune sessioni della Conferenza devono essere dedicate specificamente all’analisi dell’intreccio fra discriminazione razziale e differenza di genere, e dei problemi diversi e specifici che affrontano donne e uomini dei diversi gruppi presi di mira;
- la partecipazione della società civile (organizzazioni non governative) va programmata in modo tale da consentire un dialogo diretto con i rappresentanti dei governi, e una partecipazione diretta al negoziato sui documenti finali.

II. Il caso delle donne migranti
Tutte le riflessioni contenute nella parte generale di questo intervento, sul ruolo centrale che hanno il sessismo e i problemi dell’identità maschile nella costruzione delle idee razziste di “superiorità/inferiorità”, valgono anche per il modo in cui queste idee vengono usate contro gli immigrati e le immigrate. Le aggressioni contro immigrati e rifugiati, ad esempio, sono quasi sempre perpetrate da bande di giovani maschi le cui motivazioni, atteggiamenti, pregiudizi, sono identiche, e presentano persino le stesse modalità, di quelle delle bande che si dedicano allo stupro di gruppo, anche quando le donne stuprate non sono affatto immigrate. Il colore della pelle, che svolge tuttora un ruolo centrale nei parametri razzisti di superiorità/inferiorità, viene strettamente associato a metafore sessuali, come ci hanno ricordato spesso le donne afro-americane: nel caso dei neri, lo stereotipo è quello dello stupratore, nel caso delle donne nere è la preda sessuale.


1. Riconoscere il ruolo del sessismo come componente essenziale della xenofobia e del razzismo contro immigrati e immigrate
Un aspetto specifico di come la differenza di genere incide sulla costruzione di parametri razzisti di superiorità/inferiorità è rappresentato dalla forme diverse di stereotipi negativi che vengono applicate rispettivamente a immigrati e immigrate. In entrambi i casi, gli stereotipi negativi in cui viene imprigionata la popolazione immigrata sono associati alla criminalità. Nel caso degli uomini però - in particolare se si tratta di uomini provenienti da aree “a rischio”, come i Balcani - l’immagine dell’immigrato “cattivo” è quella del ladro, del rapinatore, dello stupratore. Per le donne, invece, lo stereotipo negativo dell’immigrata è sempre quello della prostituta; e le ronde notturne contro le prostitute straniere vengono pubblicizzate come campagne “di pulizia”, per preservare la sicurezza e l’omogeneità delle comunità locali.
Altrettanto speculari, peraltro, sono anche gli stereotipi “positivi”, che spesso i razzisti evocano per dichiarare «io non sono affatto razzista verso chi si comporta bene, ma…». In queste dichiarazioni, l’immigrato “buono” è un operaio (meglio se dequalificato) che lavora sodo, che non pianta grane e che si accontenta di un salario modesto; l’immigrata “buona”, per contro, è una colf, anche lei lavora sodo, non pianta grane, e si accontenta di pochi soldi, ma oltre a questo è anche un gradino sotto all’operaio... è “una serva”.
“Buone” o “cattive” che siano, lo stereotipo che fotografa le donne nell’immaginario razzista ha comunque a che vedere con compiti inesorabilmente legati alla divisione sessuale del lavoro, e a una domanda maschile di servizi. L’estrema “visibilità” della prostituzione di strada e l’“invisibilità” altrettanto estrema del lavoro domestico si combinano in una legittimazione reciproca di razzismo e sessismo, ed entrambe confermano l’assunto che assegna alle donne una posizione comunque subordinata.
A causa dell’invasività di questi stereotipi sia nei media che nel senso comune quotidiano, le immigrate in carne e ossa restano sempre, tutte, praticamente invisibili. Invisibili i loro livelli di scolarizzazione, la loro professionalità, la varietà delle loro esperienze professionali, familiari, di vita; invisibili le motivazioni sociali e personali che le hanno portatre a migrare, invisibili le loro irripetibili individualità. Questa negazione dell’individualità, questa impossibilità di avere voce e volto, rappresentano uno degli aspetti più pesanti del razzismo nei confronti delle donne migranti.


2. Identificare le molteplici componenti della discriminazione contro le immigrate
La discriminazione contro le immigrate assume forme diverse quando le donne migrano in cerca di lavoro, o per ricongiungersi ai familiari, o ancora quando sono figlie di famiglie immigrate. In questa vasta complessità di situazioni personali e familiari, l’intreccio fra differenza di genere e altri fattori prende forme molteplici, e la discriminazione multipla è molto frequente.
Le donne che emigrano in cerca di lavoro sono spesso donne altamente scolarizzate11, dotate di una forte personalità e di molto coraggio e determinazione. Le motivazioni che le hanno spinte a migrare sono di vario genere, e comprendono sempre una spinta di tipo economico, ma spesso accompagnata (così come avviene per gli uomini) da un desiderio più generale di emancipazione e di maturazione personale. Nonostante queste complessità, le opportunità occupazionali offerte a queste donne sono quasi esclusivamente come collaboratrici domestiche, o in aree del lavoro regolare o sommerso anch’esse legate a compiti di pulizia, servizi alla persona, ristorazione, ecc. Persino i progetti più avanzati mirati a potenziare l’autonomia e l’imprenditorialità delle donne immigrate, come quelli che forniscono sostegno per la formazione di cooperative o di imprese private, si collocano quasi sempre nel settore delle pulizie e del lavoro di cura.
Questo accesso segregato e sessista alle opportunità occupazionali incide sulla vita delle immigrate sia in termini di condizioni materiali e diritti, che in termini di stereotipi negativi, che consolidano e legittimano molte forme di razzismo sessista.
Per quanto riguarda le condizioni materiali e l’esercizio dei diritti, la discriminazione contro le collaboratrici familiari si manifesta in primo luogo come diffusa negazione dei diritti più elementari in campo economico, sociale e lavorativo. Quando questa negazione prende la forma di mancanza di un contratto regolare, o mancata registrazione del contratto in vigore, l’effetto sulla lavoratrice è multiplo: oltre alla negazione dei suoi diritti in quanto lavoratrice, le viene negata la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno, con tutti i diritti e la tutela che ciò comporta. Una clandestinità non scelta ma imposta, come spesso avviene in tutti i settori del sommerso, in particolare nell’agricoltura e nella ristorazione.
Altre forme di discriminazione riguardano il salario e le condizioni di lavoro (orari, ferie, festività, riposi, ecc.), lo status all’interno della famiglia, e spesso anche varie forme di molestie, non escluse le molestie sessuali e la violenza. La sempre crescente presenza delle donne sul mercato del lavoro, e il bisogno sempre maggiore di lavoro di cura che nasce dal mix fra invecchiamento della popolazione e carenza cronica di servizi sociali, portano a una domanda sempre crescente di lavoro domestico, di collaboratrici familiari. Dalla presenza e dalle complesse capacità e professionalità di queste lavoratrici spesso dipende l’equilibrio materiale ed emotivo di intere famiglie: eppure, nella maggioranza dei casi, queste lavoratrici non vengono considerate professioniste, ma “serve”, semi-schiave prive di vita personale e di aspirazioni individuali.
Molte molestie, molta violenza, vengono da parte dei datori di lavoro. Ma in moltissimi casi la discriminazione e il razzismo vengono invece praticati e diffusi dalle donne, poiché sono in genere le donne la figura chiave nel rapporto di lavoro e nella determinazione delle sue condizioni concrete. Donne che spesso non riescono a fare i conti con le proprie contraddizioni irrisolte, con le complessità di gestire una famiglia e distribuire/redistribuire compiti retribuiti o non retribuiti di pulizia, assistenza, cura: sono spesso queste donne, queste datrici di lavoro, le prime responsabili della diffusione di stereotipi sia razzisti che sessisti contro le immigrate.
Se così è, dare voce e potere alle immigrate (l’empowerment, appunto) significa in primo luogo la conquista di poteri e capacità che consentano di difendersi da queste forme spesso insidiose di razzismo, di discriminazione, di sfruttamento, praticate contro di loro da altre donne, più avvantaggiate e “privilegiate”.
Combattere il razzismo e la diffusione di stereotipi razzisti fra le donne, per contro, implica anche e soprattutto il tentativo concreto di far tesoro e dar forza a tutte le esperienze concrete di dialogo, rispetto dei diritti e persino solidarietà fra lavoratrici e datrici di lavoro domestico, in un impegno di empowerment rivolto sia alle une che alle altre, perché sia possibile a entrambe trasformare il proprio ruolo, retribuito o meno, nel complesso sistema del lavoro di cura.
Oltre a questi aspetti, le immigrate subiscono molte altre forme di discriminazione incrociata, ed è impossibile elencarle tutte: nell’accesso alla casa, ai servizi sociali, alla previdenza, all’assistenza, alla formazione, all’istruzione. Non ultimo, il diritto al ricongiungimento familiare – punto, com’è noto, estremamente delicato per tutti i migranti – viene spesso concesso alle lavoratrici che sono state le prime, nel nucleo familiare, a migrare con difficoltà molto maggiori (non ultime quelle legate ai diversi livelli di reddito) di quanto avvenga quando il primo a emigrare in famiglia è un uomo.
Anche in questa categoria, delle donne che migrano per ricongiungersi alla famiglia, o a un suo componente (marito, fratello, figlio, ecc.), si incontrano forme diverse, ma altrettanto pesanti, di discriminazione incrociata, sia razzista che sessista. Se la donna cerca di trovare un lavoro, si scontra con le difficoltà che abbiamo appena descritto. Se non lo fa, o non ha successo nella ricerca, il fatto che il permesso di soggiorno, la sopravvivenza materiale, e spesso anche la maggior parte dei contatti con la società di accoglienza, dipendono dal marito, o da un altro familiare, e siano “mediati” da lui, aumenta la vulnerabilità nei confronti dei pregiudizi razzisti, che sono sempre più pesanti nei confronti di comunità e individui “ghettizzati” di quanto lo siano in situazioni di dialogo e di scambio. Parallelamente, e per gli stessi motivi, aumenta anche la vulnerabilità di queste persone alla discriminazione contro le donne esistente all’interno della famiglia e della comunità di appartenenza.
La disuguaglianza fra i sessi in famiglia e nella comunità di appartenenza incide molto, com’è ovvio, sia sulla vita personale delle donne che sulle loro opportunità di lavoro, formazione, integrazione nella società di accoglienza. Parallelamente, la segregazione e la scarsa conoscenza dei propri diritti mina, quando non impedisce del tutto, la possibilità delle persone di pretendere rispetto per i propri diritti, e dunque di reagire alla discriminazione razziale e agli atteggiamenti razzisti/sessisti di datori di lavoro, istituzioni, e della società nel complesso.
Le politiche e le campagne anti-razziste sono spesso riluttanti ad affrontare questo problema. Prevalgono il timore, l’imbarazzo, la preoccupazione rispetto al modo in cui le teorie su una presunta subordinazione generalizzata delle donne in tutte le comunità immigrate vengono usate dai razzisti per dimostrare la “superiorità” delle culture e delle società che praticano l’eguaglianza fra i sessi, rispetto a quelle che vengono descritte come incivili e inferiori a causa delle pratiche di discriminazione contro le donne che le caratterizzano.
Ne sono un esempio le campagne contro l’Islam e contro la libertà religiosa dei musulmani. In queste campagne, l’esistenza di fenomeni come la poligamia, la segregazione delle donne, le mutilazioni dei genitali femminili, l’obbligo di indossare il velo o il chador, e il fatto che essi vengano predicati e/o praticati dai movimenti fondamentalisti e da alcuni musulmani, in alcuni stati islamici, vengono citati come presunte prove della natura “incivile” di tutti i musulmani, e dell’Islam in quanto tale. I casi di palese violazione dei diritti di alcune donne non musulmane sposate con mariti musulmani, e/o residenti in alcuni paesi islamici, hanno dato ulteriore fiato e argomentazioni a questi pregiudizi. I casi di segno contrario, di discriminazione razziale, sfruttamento, ostracismo e violenza, a volte subiti da donne musulmane che hanno sposato un cittadino del paese di accoglienza, sembrano invece interessare ben poco l’opinione pubblica.
Chi lotta contro il razzismo non dovrebbe avere alcuna esitazione nell’affrontare queste complessità. Per rintuzzare, in primo luogo, le menzogne più rozze usate dalle campagne razziste (le mutilazioni dei genitali femminili, ad esempio, hanno ben poco a che vedere con l’Islam); ma soprattutto per:
- sottolineare la diversità di posizioni, opinioni, esperienze che esiste all’interno di tutte le culture e le comunità, e il fatto che il terreno dell’uguguaglianza tra i sessi è ed è stato sempre fonte non di conflitti frontali fra culture/comunità monolitiche e omogenee, ma di conflittualità e contraddizioni dinamiche all’interno di ciascuna cultura e comunità, ivi comprese quelle europee, che pure hanno conquistato risultati più avanzati in termini di uguaglianza di fatto e di diritto;
- portare avanti l’obiettivo dell’uguaglianza fra i sessi non dall’alto, “contro”, o anche “per”, in nome e per conto delle donne immigrate, ma “con” loro, per loro autonoma scelta, creando le condizioni per una loro affermazione in quanto soggetti autonomi della propria liberazione sia dal razzismo che dal sessismo, nelle forme e nei modi da loro liberamente scelti;
- garantire la parità di diritti delle donne nella famiglia come nella società, ogni qualvolta e ovunque essi vengano violati, sia quando vengono impropriamente usate motivazioni religiose per giustificare pratiche e leggi discriminatorie, sia quando qualsiasi altra forma di razzismo, sessismo e violenza avvelenano le relazioni familiari e negano i diritti degli individi, dentro la famiglia e fuori.
Infine, una situazione estrema in cui si manifesta un intreccio inestricabile di razzismo, discriminazione e violenza contro le donne è quella che vivono le donne vittime della tratta, e più in generale le prostitute straniere. La situazione di queste persone è stata analizzata ampiamente in altre sedi di dibattito internazionale12; sedi in cui si è sottolineato, fra le altre cose, quanto il traffico di esseri umani sia divenuta un’attività della criminalità organizzata transnazionale, che priva le vittime di tutti i diritti fondamentali, e si è ricordato il rapporto stretto che esiste fra azioni di lotta alla tratta e politiche di immigrazione e asilo.
Si tratta insomma di un fenomeno complesso, che non c’è spazio per analizzare in questa sede, e che certamente richiede un insieme di misure articolate e integrate. Nel progettarle e metterle in campo, comprese le campagne di informazione e sensibilizzazione che sono necessarie per riuscire in un’impresa così difficile, è importante fare grande attenzione a non provocare, come inconsapevole effetto collaterale, una legittimazione e conferma dei peggiori stereotipi razzisti sulle donne immigrate. Dire la verità, e diffondere fatti e cifre esatti, è il primo passo in questa direzione. La forma di moderna schiavitù che la tratta delle donne rappresenta è già sconvolgente in sé e per sé: per combatterla, non è necessario diffondere dati gonfiati su quante donne ne sono vittima, né nascondere la semplice verità che le donne vittime della tratta, e in generale le prostitute, sono solo una piccolissima minoranza delle immigrate in Europa.


3. Dare forza alle donne immigrate in quanto protagoniste attive della lotta al razzismo
Tutte le immigrate, anche le meno autonome e intraprendenti, hanno sviluppato proprie strategie di sopravvivenza per far fronte al razzismo e alla xenofobia, perché questi fenomeni fanno parte della loro vita quotidiana. Si tratta di strategie diverse, che variano a seconda del tempo di permanenza nel paese di accoglienza, dell’età e di molti altri fattori, come la condizione lavorativa, familiare e sociale. È impossibile dar conto qui di tutte queste diverse esperienze, ma è importante essere consapevoli del fatto che esistono, e che sono molteplici, perché solo se ne abbiamo coscienza possiamo costruire politiche anti-razziste che rompano il circolo vizioso della vittimizzazione, attraverso una politica di empowerment che assegni alle donne un ruolo attivo, di protagoniste.
Un esempio di quanto siano diverse le strategie di sopravvivenza è dato dalle differenze fra generazioni. Le donne più anziane, in particolare quando sono arrivate nel paese per un ricongiungimento familiare e non per lavoro, tendono a usare l’attaccamento alla famiglia, alla comunità e a stili di vita tradizionali del paese d’origine come scudi protettivi sia contro la discriminazione razziale che contro l’assimilazione forzata: il prezzo da pagare, però, è spesso l’accettazione della discriminazione di genere all’interno della famiglia, e l’isolamento, la mancanza di un’interazione attiva con la società di accoglienza. Queste donne spesso si trovano “prese fra due fuochi”, con la società di accoglienza che chiede loro di adottare stili di vita nuovi, mentre la famiglia e/o la comunità di appartenenza pretendono da loro un ruolo di custodi della tradizione, e garanti del suo rispetto da parte dei figli, sia maschi che femmine.
Le figlie, peraltro, in particolare quando sono nate nel paese di immigrazione, o vi sono giunte in un’età molto precoce, spesso usano l’accettazione acritica dello stile di vita della società di accoglienza come strategia di liberazione personale, e anche di protezione contro la discriminazione e i pregiudizi razzisti. Quando però, nonostante tutto, questi fenomeni cadono loro addosso, il rischio è che una mancanza di coscienza delle proprie radici, e della propria identità “duale”, possa in realtà rendere queste ragazze più vulnerabili di fronte al razzismo, e in grande difficoltà nell’elaborare un’identità e un’immagine di sé in positivo.«Una ragazza che ha difficoltà a identificarsi nella sua cultura di origine non potrà avere nessuno scambio culturale con i suoi coetanei e sarà la vittima disegnata del razzismo, mentre le ragazze che vivono la cultura di origine con una certa fierezza, sono più ricche culturalmente e sono quindi in grado di confrontarsi meglio con gli altri».
Come sottolinea la rappresentante di un’associazione interculturale di donne che opera in Italia, sviluppare un’immagine positiva di sé è particolarmente difficile anche per le lavoratrici domestiche, in particolare quando vivono presso la famiglia per cui lavorano: «Lavorare fisso presso una famiglia comporta delle privazioni sostanziali, perdita di spazio fisico, psicologico ed emotivo, limitazioni radicali della libertà personale; spesso si passa da un ruolo attivo, riconosciuto, propulsore nella propria famiglia, a un ruolo di subordinazione che implica automaticamente la negazione di una parte di sé. Diventa lavoro quello che a casa era parte dei “compiti” delle donne, come accudire gli anziani, e questo necessita di un minimo di investimento non soltanto professionale per svolgere in maniera retribuita un’attività che nella propria esperienza appartiene alla sfera affettiva. Le strategie sono varie: ci si affeziona alla persona in cura facendo finta magari di assistere un familiare o un parente stretto; si prova a fare il proprio lavoro in modo distaccato, impresa assai difficile trattandosi di persone; oppure ci si colloca in una posizione di eterna transitorietà, assumendo il lavoro come un passaggio, una parentesi in prospettiva di qualcosa migliore».
Le strategie di sopravvivenza e di resistenza delle donne si sono sviluppate anche attraverso molte forme di organizzazione collettiva, quali la costruzione di associazioni “nazionali” della comunità di appartenenza: un’esperienza che ha sempre caratterizzato la storia dell’emigrazione. Queste associazioni svolgono una molteplicità di compiti, dall’organizzazione di feste e luoghi di incontro al sostegno reciproco, alle comunicazioni, ai rapporti con il paese d’origine. Si tratta di associazioni che hanno spesso prodotto solidarietà, e capacità di difesa dei diritti dei migranti, insieme a una maggiore conoscenza del paese d’origine, a un’immagine di sé più positiva; la maggior parte di esse, però, non ha dimostrato grande sensibilità nei confronti delle tematiche di genere, né dell’esigenza di combattere la discriminazione fra i sessi all’interno della comunità di appartenenza. Nonostante questi limiti (anzi, proprio perché esistono), il coinvolgimento diretto delle associazioni e istituzioni degli immigrati è essenziale per l’efficacia delle iniziative politiche, e per grantire dialogo e interazione con la societò di accoglienza.
Infine, uno sviluppo importante in alcuni paesi europei è la creazione di associazioni di donne immigrate e associazioni interculturali di donne, in cui partecipano sia le immigrate che le cittadine della società di accoglienza. Si tratta di organizzazioni che mirano esplicitamente ad affrontare l’interazione fra dicriminazione razziale e differenza di genere, e puntano a un empowerment di tutte le donne. Spesso organizzano anche progetti concreti di valorizzazione delle persone e delle risorse e di produzione di reddito, quali creazione d’impresa, formazione, assistenza sanitaria, consulenza legale e di altro genere, ecc.; oppure iniziative di educazione anti-razzista nelle scuole, di insegnamento delle lingue, e molte altre forme di sostegno a figlie e figli di famiglie immigrate. «Sono spazi di condivisione di esperienze, di elaborazione politica, di scambi culturali, di progettazione. Ma costituiscono anche scenari di forti conflitti determinati dall’eterogeneità delle componenti e dalle diverse collocazioni politiche, sociali ed economiche».
Imparare a convivere con questi conflitti, e sviluppare strategie comuni e solidarietà fra “migranti e native”, è una componente importante dell’impegno a far sì che ogni donna possa costruirsi la forza, la fiducia in se stessa e gli strumenti concreti tramite i quali far valere i propri diritti e prendere in mano la propria vita, libera da coercizioni, discriminazioni e violenza.

4. Adottare il giusto insieme di poltiche e iniziative di lotta al razzismo contro le immigrate
Tutte le politiche antirazziste dovrebbero essere chiaramente mirate all’inclusione e all’empowerment delle immigrate. Parallelamente, è anche necessario elaborare politiche mirate e specifiche, per rispondere ad alcune esigenze concrete. Molte delle misure necessarie non si collocano solo sul terreno della lotta alla discriminazione e al razzismo, ma su quelli della integrazione sociale, dell’empowerment, della partecipazione. Infatti, con il ruolo crescente che hanno i movimenti migratori in un mondo globalizzato e in rapido cambiamento, solo se le/i migranti vivranno un’integrazione piena, come componenti attive e preziose di comunità sempre più multietniche e multiculturali, sarà possibile sconfiggere davvero il razzismo, e non solo limitarsi a punirlo e contenerne gli effetti.
Alcuni esempi di politiche e di azioni che si potrebbero sviluppare, con il coinvolgimento attivo delle donne migranti e delle loro associazioni, sono:
- tutelare i diritti umani e le libertà fondamentali delle donne migranti, compresi i diritti in materia di salute, gravidanza e parto, come diritti che si applicano a tutte le persone che si trovano sul territorio di qualsiasi stato, indipendentemente dalla loro nazionalità o status giuridico;
- rendere possibile alle immigrate la conoscenza dei propri diritti, il potere di farli valere, l’accesso a tutti i mezzi di ricorso contro le discriminazioni, in tutti i campi della vita pubblica e privata;
- promuovere il riconoscimento dei molteplici livelli di professionalità e qualificazione delle donne immigrate, nonché il loro accesso a posti di lavoro qualificati, al lavoro autonomo, e ad opportunità di studio, di formazione professionale e di creazione d’impresa;
- garantire il rispetto delle Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) sulla parità di trattamento e il divieto di discriminazione in materia di lavoro e di sicurezza sociale;
- garantire il rispetto dei diritti sociali ed economici di tutte le lavoratrici e i lavoratori, anche nel sommerso e nel lavoro domestico, su temi quali retribuzione, ferie, sicurezza sociale, diritti sindacali e del lavoro, nonché la protezione contro pregiudizi, discriminazione e violenza;
- incentivare la regolarizzazione delle lavoratrici domestiche, anche tramite facilitazioni fiscali e altre misure di sostegno alle famiglie che devono ricorrere a collaboratrici familiari per l’assistenza all’infanzia e/o a persone non autosufficienti, anziane o disabili;
- facilitare i ricongiungimenti familiari e garantire che tutte le norme in materia si basino sul principio dell’eguaglianza tra i sessi e sull’esigenza di garantire uno status autonomo a ciascun membro della famiglia;
- assicurare che il diritto di famiglia e tutti gli accordi internazionali in materia di matrimoni misti garantiscano i diritti delle donne e la parità fra i sessi;
- promuovere misure concrete per garantire che le donne migranti vittime di crimini legati alla differenza di genere, quali lo stupro e altre forme di violenza, compresa la violenza domestica, la prostituzione forzata e la tratta, ricevano protezione giuridica e sostegno adeguati, vengano protette dal razzismo e messe in condizione di reagire;
- elaborare politiche mirate per perseguire penalmente la tratta delle donne, punire i trafficanti, e mettere le persone trafficate in condizione di riappropriarsi della propria vita, compreso tramite misure speciali di protezione per le donne che vogliono sfuggire ai trafficanti (quali alloggi protetti e permessi di soggiorno speciali), nonché programmi di reinserimento sociale che diano accesso a opportunità di formazione e di lavoro;
- organizzare le campagne contro la tratta in modo tale da evitare il diffondersi di stereotipi negativi sulle donne migranti, e di pregiudizi sessisti/razzisti;
- ripensare le politiche sanitarie e organizzare corsi di formazione per operatori sanitari al fine di promuovere la comprensione e il rispetto per la diversità di provenienza culturale e di esperienze personali in materia di salute, malattia, sessualità, gravidanza e parto;
- fornire agli operatori sanitari una formazione che li metta in grado di rispondere alle esigenze specifiche delle donne immigrate, comprese quelle che hanno subito mutilazioni dei genitali o hanno altri tipi di esigenze particolari;
- sviluppare politiche ad hoc contro le mutilazioni dei genitali femminili, basate sull’empowerment delle donne e il rispetto dei diritti umani, promuovendo il coinvolgimento della società civile, dei media, di insegnanti, operatori sanitari, organizzazioni religiose e altri soggetti interessati, verificando che non vengano lanciate campagne discriminatorie e/o mirate contro le comunità immigrate, e promuovendo al contrario il dialogo e la partecipazione attiva delle comunità direttamente toccate dal problema;
- sollecitare la presenza delle immigrate all’interno dei mezzi di comunicazione, in particolare in veste di giornaliste, e la diffusione di informazioni documentate e non manipolate, sensazionalistiche, o legate al tema della criminalità;
- sviluppare e valorizzare progetti di formazione interculturale che tengano conto della differenza fra i sessi, con la diretta partecipazione delle immigrate, nonché programmi di formazione del corpo insegnante su questi temi;
- sviluppare programmi di formazione mirati contro il razzismo, il sessismo e le discriminazioni multiple all’interno delle istituzioni, rivolti alle figure professionali più frequentemente in contatto con la popolazione immigrata, quali funzionari degli uffici del lavoro, insegnanti, assistenti sociali, operatori sanitari, autorità preposte all’immigrazione, polizia, magistrati e altri rappresentanti delle forze dell’ordine;
- sollecitare le istituzioni scolastiche ad adottare politiche di pari opportunità e di lotta al razzismo, e che affrontino l’interazione fra pregiudizi e stereotipi razzisti e sessisti, con la partecipazione di insegnanti, genitori e studenti, appartenenti sia alla comunità di accoglienza che alle comunità immigrate;
- dare sostegno all’associazionismo delle donne immigrate, che vanno coinvolte nella progettazione, attuazione e monitoraggio di tutte le politiche che incidono sulla loro vita.

Roma, 20 novembre 2000




NOTE:

1 Relazione presentata alla riunione di esperte Differenza di genere e discriminazione razziale, Zagabria, 21-24 novembre 2000, organizzata dalla
Divisione per il progresso delle donne (Daw) delle Nazioni Unite, dall'Alto Commissario Onu per i diritti umani e dallUnifem, il Fondo delle Nazioni Unite per le donne.

2 Lespressione gruppi presi di mira (targeted groups) è stata scelta dalla Conferenza regionale europea Tutti diversi, tutti eguali: dai principi alla pratica (Strasburgo, 11-13 ottobre 2000), per indicare diversi gruppi di persone che vengono presi di mira dai movimenti e dalle politiche razziste, nonché colpiti dalle varie forme di discriminazione. La scelta della parola presi di mira, piuttosto che altre espressioni, quali gruppi vulnerabili è stata il risultato di un ampio dibattito, in particolare con le organizzazioni non governative espressione dei gruppi in questione. Esse hanno infatti sottolineato che la definizione da scegliere non avrebbe dovuto far riferimento a una presunta vulnerabilità intrinseca di chi è nero, migrante, o rom, quanto agli effetti del razzismo sulle persone che tali fenomeni prendono di mira. In coerenza con quanto discusso in quella sede, in tutto il testo di questa relazione verrà usata lespressione gruppi presi di mira.

3 bell hooks, YEARNING race, gender and cultural politics, South End Press, 1990.

4 Rada Ivekovic, La balcanizzazione della ragione, manifestolibri, 1995.

5 Hans Magnus Enzensberger, Prospettive sulla guerra civile, Einaudi, 1994.

6 CERD, General Recommendation 25 (General Comments), 20 marzo 2000.

7 CERD, vedi nota 6.

8 Amartya Sen, Development as Freedom, Oxford University press, 1999, traduzione italiana: Lo sviluppo è libertà, Mondadori, 2000.

9 Tutti diversi, tutti eguali: dal principio alla pratica.Conclusioni generali della Conferenza europea contro il razzismo, Strasburgo, 16 ottobre 2000 (Documento del Consiglio dEuropa EUROCONF (2000) 7 final).

10 Per alcuni esempi di politiche mirate, vedi la seconda parte del testo, sul caso delle donne migranti.

11 Da una ricerca della Commissione pari opportunità della Regione Toscana risulta che il 33 per cento della immigrate residenti nella regione hanno un diploma di istruzione superiore: la maggioranza di queste donne lavora come colf. (v. anche il saggio di Mercedes Frias, Migranti e native: la sfida di camminare insieme, pag. ).

12 Fra i documenti più recenti, la Risoluzione del Parlamento Europeo del 19 maggio 2000, che ha adottato il Rapporto Sorensen, e il Rapporto finale della riunione supplementare dell'OSCE sulla tratta di esseri umani, Vienna, 19 giugno 2000. Entrambi i documenti contengono un vasto numero di raccomandazioni utili sulla lotta alla tratta. A esse si è aggiunto, dopo il seminario di Zagabria, il Protocollo di Palermo sulla tratta di esseri umani, adottato nel quadro della Convenzione contro la criminalità organizzata.