La violenza contro le donne: definizioni e "liste"



Nella Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, l'espressione "violenza contro le donne" viene così definita:

"qualunque atto di violenza sessista che produca, o possa produrre, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, ivi compresa la minaccia di tali atti, la coercizione o privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata. [...]

La violenza contro le donne va intesa come comprensiva di, ma non limitata a, quanto segue:

a. la violenza fisica, sessuale e psicologica che si verifica nella famiglia, in particolare maltrattamenti fisici, abusi sessuali nei confronti delle bambine nel contesto domestico, violenza correlata alla dote, stupro coniugale, mutilazioni dei genitali femminili ed altre pratiche tradizionali che recano danno alle donne, violenza da parte di persona diversa dal coniuge e violenza a fini di sfruttamento;

b. la violenza fisica, sessuale e psicologica che si verifica nella comunità, in particolare stupro, abusi sessuali, molestie sessuali e intimidazioni sul lavoro, negli istituti scolastici e altrove, tratta delle donne e prostituzione forzata;

c. la violenza fisica, sessuale e psicologica commessa o condonata dallo Stato, ovunque avvenga."

La stessa definizione, e la stessa lista di modalità in cui la violenza si manifesta, veniva riprodotta, nel 1995, nella Piattaforma di Pechino. Negli anni seguenti, però, l’impegno dei movimenti delle donne contro tutte le forme di violenza ha messo in luce altri fenomeni, altrettanto gravi, ma non sempre puniti dalle legislazioni nazionali, nè riconosciuti dalla comunità internazionale in quanto violazioni dei diritti umani.

Già nel 1994, ad esempio, nel suo primo rapporto alla Commissione diritti umani la Relatrice speciale sulla violenza contro le donne metteva in luce altre vicende drammatiche, non esplicitamente nominate nella Dichiarazione:

Negli anni seguenti, la relatrice speciale ha ulteriormente ampliato la gamma dei suoi interventi, affrontando ad esempio il tema della violenza nel contesto della salute riproduttiva, e naturalmente approfondendo tutte le questioni affrontate nella Dichiarazione del 1993 e nella Piattaforma di Pechino.

Contemporaneamente la richiesta di misurarsi anche con altri temi veniva da molte fonti: i movimenti delle donne, le agenzie delle Nazioni Unite impegnate in programmi di lotta alla violenza, i governi più sensibili a questi problemi.

"Nominare" il problema veniva visto come un primo passo per ottenere dal proprio governo una modifica della legislazione in materia, o per dare forza alle proprie campagne di denuncia, per trovare un riferimento alle proprie battaglie culturali. Un fenomeno analogo a quello dei "soggetti invisibili", che si sono battuti in questi anni perchè nei documenti internazionali contro il razzismo comparisse la parola "casta", o la condanna delle discriminazioni in base all’orientamento sessuale.

La sede dello scontro è spesso un oscuro negoziato terminologico, per stilare una risoluzione dell’Assemblea Generale ONU, o della Commissione diritti umani, o la Piattaforma di una conferenza mondiale, o le assemblee di revisione come "Pechino+5". Il risultato, la parola che si è riuscite finalmente ad inserire, a volte promette impegni concreti, o un nuovo strumento giuridico internazionale, a volte èsolo una bandiera da riportare a casa, o nemmeno quella.

In questo faticoso percorso, sono entrate nelle liste internazionali che definiscono la violenza contro le donne, nuove parole, ciascuna simbolo di una nuova battaglia, che si chiede alla comunità internazionale di intraprendere contro:

Su alcuni di questi temi, poco più di una parola su un testo. Su altri, dalle parole delle piattaforme nascono campagne internazionali e iniziative di solidarietà: è il caso delle mutilazioni genitali, degli attacchi con l’acido, della solidarietà alle donne afghane, alle bambine africane, alle schiave tailandesi o sudanesi.

(c.i.)