Il Protocollo facoltativo della Convenzione CEDAW: storia e contenuti1



Il Protocollo facoltativo CEDAW è stato adottato dallAssemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1999, a venti anni dallapprovazione della Convenzione. Latto ufficiale di apertura alle firme è stato il 10 dicembre dello stesso anno, in occasione della giornata mondiale dei diritti umani. Avendo previsto un numero minimo di ratifiche relativamente basso per lentrata in vigore, questultima è potuta scattare a solo un anno dalladozione, il 22 dicembre del 2000.2

Al di là dei tempi così brevi dellufficialità, la storia del Protocollo CEDAW è in realtà molto più lunga e controversa di quanto possa sembrare. Le prime proposte di inserire nella Convenzione la possibilità per le donne di presentare denunce erano infatti state discusse già molti anni prima della procedura ufficiale, in sede di stesura della Convenzione stessa: allora, però, erano cadute nel vuoto. Ci vollero più di dieci anni, fino al 1991, perché le Nazioni Unite organizzassero anche solo un seminario per discutere della questione; e altri due per ottenere un primo risultato visibile, in una sede solenne come la Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna, nel 1993.

La Commissione sulla condizione delle donne ed il Comitato CEDAW dovrebbero esaminare al più presto la possibilità di introdurre il diritto di petizione, attraverso lelaborazione di un protocollo della Convenzione per leliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Così la Conferenza di Vienna. Due anni dopo, a Pechino, la stessa richiesta viene ribadita dalla Conferenza mondiale dellONU sulle donne, che nella sua Piattaforma dAzione chiede ai governi di: appoggiare il processo iniziato dalla Commissione sulla condizione delle donne per istituire un protocollo facoltativo della Convenzione, in modo che esso possa entrare in vigore il più presto possibile..."3

Lanno dopo, finalmente, la CSW istituisce ufficialmente un gruppo di lavoro aperto incaricato di un primo esame della questione, e poi della stesura del testo. Il negoziato vero e proprio inizia dunque solo nel 1997, per concludersi in tempi relativamente brevi per lONU: in due anni e tre sedute di Commissione, per un totale di sei settimane di discussione.

E un negoziato difficile, combattuto, sul cui buon esito finale pesa in modo determinante non solo la scelta netta di alcuni governi (tra i quali anche quello italiano), ma anche e soprattutto la pressione della società civile organizzata, ed in particolare delle organizzazioni internazionali di donne impegnate sul fronte dei diritti umani: le stesse, ad esempio, che tanto hanno inciso sul negoziato per lo Statuto della Corte penale internazionale.

Nella prima fase, lo scontro verte sulla validità e praticabilità del Protocollo in quanto tale: in sostanza, su quanto le norme della CEDAW vadano considerate davvero vincolanti, e dunque, come si dice in gergo giustiziabili, cioè impugnabili in tribunale come vere e proprie norme di legge, e non semplici dichiarazioni dintenti. Uno scontro, insomma, che metteva in discussione la stessa affermazione della Conferenza di Pechino, secondo la quale i diritti delle donne sono diritti umani, e non diritti di serie B, da invocarsi solo quando e dove si vuole.

Oltre a ciò, il negoziato metteva in discussione lutilità del Protocollo in quanto strumento: a cosa serve, si diceva, una procedura di ricorso specifica per le donne, quando esistono già, sui diritti universali, le procedure del Comitato diritti umani? Anche in questo caso, uno scontro di fondo, che chiedeva alle donne di rinunciare a luoghi specifici e soggettività autonoma, per annegare tutte le proprie rivendicazioni in una nozione neutra di universalità, ed in luoghi neutri considerati più autorevoli e significativi del Comitato CEDAW e dei diritti da esso tutelati.

Una volta superati questi ostacoli preliminari, ed acquisita comunque la giustiziabilità delle norme contenute nella CEDAW e lutilità di istituire un Protocollo, lo scontro degli ultimi anni si è concentrato sulla sostanza delle norme che il Protocollo avrebbe dovuto contenere. Tre temi, in particolare, hanno richiesto negoziati particolarmente difficili:

- la scelta di chi avrebbe avuto il diritto di presentare denunce, e a quali condizioni;
- la definizione del tipo di violazioni che il Protocollo avrebbe consentito di denunciare;
- la possibilità o meno di introdurre nel Protocollo, oltre alle procedure di denuncia, una procedura di inchiesta da parte del Comitato.


Sul primo punto, il chi e come, il nodo essenziale riguardava la scelta se consentire o meno a gruppi di donne, associazioni, movimenti impegnati per la tutela dei diritti umani, di presentare denunce di gruppo, e non solo denunce individuali per torti subìti in prima persona. Un nodo rilevante, in quanto nelle situazioni più drammatiche è ben difficile che le persona interessata abbia la forza, le informazioni, la possibilità di presentare denunce allONU; e in quanto la dimensione collettiva ha una politicità che non a caso i paesi meno democratici non intendono lasciar scendere in campo.

La mediazione raggiunta su questo punto prevede una via di mezzo: le denunce possono essere presentate sia a titolo individuale che da gruppi di persone, sia in prima persona che a nome di persone o di gruppi di persone dunque anche (così interpretano in molte)4 da organizzazioni o associazioni. In questultimo caso, però, ciò deve avvenire con il consenso della/delle interessate, e se non è stato espresso il consenso, chi presenta la denuncia deve spiegare perché.

Quanto al secondo punto, il tipo di violazioni da denunciare, il negoziato ha riguardato la proposta di molte (sia nelle organizzazioni non governative sia nelle delegazioni di governo) di prevedere la possibilità di denunciare non solo le violazioni dirette da parte dello stato, ma anche, ed esplicitamente, le violazioni che risultano da una omissione da parte dello stato. Questa formulazione non è stata accolta, e il testo recita semplicemente: violazione di uno qualsiasi dei diritti sanciti dalla convenzione, da parte dello stato parte in questione. Molte ritengono, tuttavia, che il fatto stesso che la Convenzione CEDAW impegna gli stati non solo a non discriminare, ma ad intervenire attivamente per eliminare le discriminazioni, significa che può essere ritenuta violazione anche una mancanza di intervento di fronte a violazioni esercitate da privati; e questo, in futuro, potrà essere un terreno di lavoro significativo per le organizzazioni che si occupano di diritti umani delle donne.5

Il terzo tema controverso, infine, riguardava listituzione della procedura di indagine, tramite la quale il Comitato CEDAW può non solo occuparsi di fatti che qualcuno ha denunciato, ma anche condurre indagini in proprio. Quando e come far scattare questa possibilità? Mai, secondo alcune delegazioni; ma questa opposizione più rigida è rimasta piuttosto isolata. Più complesso invece il negoziato sulla definizione dei casi in cui intervenire: secondo alcuni, solo quelli di violazioni gravi e sistematiche, cioè solo nelle situazioni più estreme, secondo altri (ed è questa la posizione che ha poi prevalso), nei casi di violazioni gravi o sistematiche cioè in un numero più ampio di situazioni. Anche sul modo in cui coinvolgere o meno gli stati interessati, si è discusso molto, con soluzioni non sempre considerate soddisfacenti dalle ONG.

Infine, il compromesso raggiunto sul tema della procedura dindagine comprende un punto delicato, e da alcune considerato un notevole indebolimento del Protocollo: la possibilità per gli stati del cosiddetto opting out, cioè di dichiarare, al momento della firma o della ratifica del Protocollo, che non si riconoscono le competenze del Comitato definite agli articoli 8 e 9, che parlano appunto della procedura di indagine. Questa norma, secondo alcune, contraddice un punto che viene invece considerato un punto di forza: il fatto che il Protocollo non consente la ratifica con riserva.

Insomma, dallinizio di questo nuovo millennio le donne hanno a disposizione uno strumento in più per chiedere a livello mondiale il riconoscimento dei propri diritti, ma ci vorrà ancora molto tempo per dare a questo e ad altri strumenti tutta lefficacia di cui avrebbero bisogno. Allargare le ratifiche degli strumenti esistenti, superare gli ostacoli rappresentati dalle riserve, e soprattutto dare più forza agli strumenti di cui dispongono le Nazioni Unite per far valere ovunque il rispetto dei diritti umani, e coinvolgere in questo processo non solo i governi, ma i parlamenti e la società civile: saranno questi alcuni dei terreni su cui si misurerà la sfida posta non solo dalla Convenzione CEDAW e dal suo Protocollo, ma dallesistenza stessa di un sistema internazionale dei diritti umani.





1 Tratto da….

2 LItalia, nonostante le sue procedure di norma molto lente, nel caso del Protocollo CEDAW non solo non è stata indietro rispetto ad altri paesi, ma vanta addirittura un record. Il nostro paese ha infatti firmato il Protocollo sin dal primo giorno, il 10 dicembre 1999, ed ha ratificato entro un anno. Trattandosi della decima ratifica, è stata proprio la decisione del nostro paese a consentire lentrata in vigore del Protocollo.

3 Piattaforma dAzione di Pechino, 1995, Obiettivo strategico I.1, paragrafo 230k.

4footnote * Linterpretazione di queste norme è essa stessa terreno di verifica politica, e presumibilmente si evolverà nel corso degli anni. La delegazione italiana alla CSW, ad esempio, ha dichiarato in sede di adozione del Protocollo che: Abbiamo fiducia che la giurisprudenza del Comitato sarà aperta ad una interpretazione dinamica dei punti più controversi, alla luce della pratica di altri organi dei trattati sui diritti umani ed anche della peculiarità della Convenzione CEDAW, che prevede un ambito di diritti umani sociali e culturali più ampio che non altri strumenti internazionali. La delegazione italiana intende la formulazione gruppi di individui come comprensiva delle ONG (n.d.r. organizzazioni non governative) che agiscono autonomamente, e non a nome delle vittime. Quanto ai casi in cui le ONG o altri soggetti agiscono a nome delle vittime, ci aspettiamo che il Comitato adotti una interpretazione ampia della norma che consente di agire senza il consenso della vittima, e che esso accetti una comunicazione non solo nei casi in cui sarebbe impossibile, ma anche nei casi in cui è davvero difficile per la vittima agire in prima persona o esprimere il proprio consenso

5 Anche su questo punto la delegazione italiana allONU si è espressa con nettezza, affermando che: La delegazione italiana intende il termine diritti contenuto allart.2 come riferita a tutte le norme di sostanza contenute nella Convenzione CEDAW, pertanto anche in materia di conquiste sociali e culturali. Riteniamo pertanto che il Comitato accetterà anche le comunicazioni riferite non ad una violazione diretta ma anche al mancato rispetto da parte di uno stato di uno degli obblighi stabiliti dalla Convenzione CEDAW.