La Corte penale internazionale e i diritti delle donne

di Maria Grazia Giammarinaro

Proverò ad analizzare gli approdi della discussione svoltasi a Roma in preparazione dello statuto della Corte penale internazionale, focalizzando l’attenzione sull’approccio giuridico ad alcune questioni di particolare significato nell’orizzonte di senso della soggettività femminile, e con riferimento anche ad altri strumenti internazionali recentemente adottati. A partire dalle norme contenute nello statuto, per chiarezza espositiva tratterò separatamente due gruppi di argomenti, quelli relativi al principio di non discriminazione e al rapporto tra uguaglianza e differenza, e quelli relativi alla violenza di massa contro le donne.

Principio di non discriminazione, differenza sessuale, differenze

Il divieto di discriminazione per qualsiasi causa, anche in ragione del sesso, è stato inserito nello statuto della Corte penale internazionale tra i principi di applicable law (art. 21, § 3). Si tratta dunque di un principio di carattere generale, destinato a orientare l’interpretazione e l’applicazione dell’intero statuto. In altri termini gli eventuali dubbi interpretativi sul significato di singole previsioni, ovvero i problemi attuativi relativi a norme sia sostanziali sia processuali, dovranno essere risolti in base a criteri improntati al principio di non discriminazione.

Potrebbe sembrare un risultato scontato, se si pensa che il divieto di discriminazione è presente nella Dichiarazione universale e in molte Convenzioni internazionali. Tuttavia il principio di non discriminazione acquista oggi un significato più pregnante in conseguenza di alcuni grandi fatti di diverso segno e natura, ma tutti di portata storica: l’emergere della soggettività femminile come potente fattore di mutamento sociale, i flussi migratori e il connesso problema del multiculturalismo, i tragici conflitti interetnici nell’ultimo decennio, la diversificazione delle scelte e degli stili di vita. Tutto ciò pone il problema di una rivisitazione della tematica delle discriminazioni. Ne è una riprova il fatto che anche il Trattato europeo di Amsterdam del 1997 rilancia il principio di non discriminazione, con una formulazione che per la prima volta allarga le cause di discriminazione da quelle già previste nella Dichiarazione universale e in molte Costituzioni, come la razza, la religione, la lingua, ad altre quali la disabilità, l’età, l’orientamento sessuale.

La formulazione accolta nello statuto è assai meno avanzata di quella del Trattato. Non solo non vi è menzione della causa di discriminazione costituita dall’orientamento sessuale, ma vi è stata un’opposizione esplicita dei paesi arabi perfino all’introduzione del principio di gender discrimination. La contrarietà all’introduzione del divieto di gender discrimination acquista un significato apertamente regressivo se pensiamo a quanti ordinamenti nazionali non riconoscono ancora alle donne l’uguaglianza formale dei diritti, in relazione ad esempio all’acquisto dell’eredità o al diritto di famiglia. Alla fine il principio di non discriminazione per sesso è stato accolto nello statuto, con la precisazione che l’espressione si riferisce solo ai due sessi, maschile e femminile, nel contesto della società. La formulazione mira ad escludere l’orientamento sessuale e l’identità sessuale transex o transgender dall’ambito di vigenza del principio di non discriminazione.

Resta tuttavia il fatto positivo dell’inserimento della clausola antidiscriminatoria tra i principi generali di diritto applicabile, che nella formulazione definitiva comprende età, razza, colore, lingua, religione o credo, opinioni politiche o altre convinzioni, origine nazionale, etnica o sociale, ricchezza nascita o altra condizione. La norma di chiusura relativa ad "other status" consente, in via intepretativa, di dare tutela anche alle discriminazioni per cause non specificamente nominate, tra cui l’orientamento sessuale e l’identità sessuale.

L’importanza dell’inserimento della clausola di non discriminazione può essere meglio apprezzata se si considera che tra i crimini contro l’umanità è stato introdotto il delitto di gender persecution, come presidio contro le situazioni in cui l’appartenenza al sesso femminile costituisce la causa di trattamenti deteriori condotti in maniera sistematica e su larga scala (art. 7, § 1, lett. (h). Si tratta di un forte e non scontato riconoscimento dell’illiceità giuridica, oltre che etica, di regimi come quello dell’Afghanistan, che assumono la discriminazione contro le donne come fondamento politico-ideologico.

Il principio di non discriminazione, come tutte le clausole generali, è una norma aperta, una sorta di valvola che consente l’interpretazione progressiva ed evolutiva dell’intero statuto, anche rispetto a situazioni nuove e attualmente imprevedibili, o rispetto al riconoscimento di nuovi diritti. Basti pensare agli sviluppi della discussione al livello internazionale in materia di libertà di scelta in materia riproduttiva. Ad esempio rispetto all’attuale formulazione della lista dei crimini contro l’umanità contenuta nello statuto, dove hanno trovato ingresso il delitto di sterilizzazione forzata e, in termini assai limitati, il delitto di gravidanza forzata, potrebbe in futuro venire in evidenza il comportamento di gruppi o di stati che impedissero sistematicamente l’assunzione di scelte libere in materia riproduttiva.

Gli sviluppi della discussione sul principio di non discriminazione riguardano innanzi tutto la definizione dell’allegato contenente le definizioni dei crimini, attualmente in discussione; ma riguardano anche il complesso degli strumenti internazionali, a cominciare dal protocollo addizionale alla Convenzione di New York sulle discriminazioni contro le donne (CEDAW), entrato in vigore nel marzo del 2001 grazie al raggiungimento della decima ratifica, che è stata proprio quella dell’Italia.

L’interpretazione progressiva del principio di non discriminazione richiede innanzi tutto una revisione dell’impostazione teorica relativa al rapporto uguaglianza-differenza, che valorizzi alcuni collegamenti significativi, in particolare il nesso tra principio di non discriminazione e politiche di pari opportunità, e quello tra principio di non discriminazione e strategie di protezione-promozione dei diritti umani.

Stabilire il nesso non discriminazione-pari opportunità implica il tenere costantemente insieme due diverse dimensioni: la possibilità di reazione al trattamento deteriore causato dalla differenza e le politiche positive di promozione dei diritti sociali e culturali. Il collegamento viene spesso sottolineato dai paesi in via di sviluppo come taglio privilegiato di una visione dei diritti umani attenta alla costruzione delle condizioni economiche, sociali, culturali, per la concreta attuazione dei diritti. D’altra parte entrambi gli aspetti sono presenti nel CEDAW, e le corrispondenti situazioni soggettive vanno tutte considerate giustiziabili. Attraverso un’interpretazione ampia delle relative norme del protocollo, rimessa allo stesso comitato incaricato di decidere i ricorsi, vanno considerate come oggetto della procedura di contestazione non soltanto le violazioni dei diritti in senso stretto, ma anche le situazioni nelle quali la violazione è determinata dall’inadempimento dello stato rispetto agli obblighi sanciti dalla convenzione. Si tratta proprio di quelle situazioni nelle quali lo stato non realizza politiche positive volte alla attuazione dei diritti sociali e culturali che vengono indicati dalla Convenzione come essenziali per la realizzazione dell’uguaglianza di godimento dei diritti tra donne e uomini.

Violenza di massa e corpo femminile

E’ stato ormai detto quasi tutto sull’importanza dell’istituzione della Corte ai fini della prevenzione e della repressione dei fenomeni di violenza di massa contro le donne, sia nel contesto dei conflitti, sia nell’ambito delle situazioni di sistematica violazione dei diritti che caratterizza certi regimi anche in tempo di pace. La stessa possibilità che tali atrocità non restino impunite, assicurata in linea di principio dall’esistenza della Corte, muta completamente lo scenario della risposta collettiva alle gross violations dei diritti umani.

Non sarebbe corretto né produttivo non vedere i limiti, in termini strettamente giuridici, della giustiziabilità di tali fenomeni collettivi. A differenza dei Tribunali ad hoc per la ex Yugoslavia e per il Rwanda, la Corte potrà giudicare in base a regole stabilite prima della commissione dei reati: dunque sarà pienamente affermato il principio di irretroattività che finora ha costituito il punto debole delle esperienze dei tribunali penali internazionali. Tuttavia non si potrà ovviare ad altri due difetti delle procedure di repressione giudiziaria al livello internazionale. Anche la Corte dovrà scontare il fatto che non tutti i responsabili potranno essere processati, e dunque si manifesterà ancora un problema di frammentarietà della giustizia internazionale. Inoltre potrà ancora succedere che siano sottoposti a processo e a sanzione solo gli esecutori dei crimini, e che i responsabili della direzione politica sfuggano alle maglie dei complessi rapporti tra responsabilità individuale e ruolo degli stati. Inoltre nelle atrocità di massa c’è qualcosa di irrimediabile, che nessun processo potrà mai risarcire né punire adeguatamente.

Tuttavia queste considerazioni non possono oscurare il senso e la portata storica della risposta giuridica alla violenza di massa.

Innanzi tutto, lo stesso svolgimento del processo costituisce una modalità di rielaborazione collettiva del significato del crimine. In secondo luogo la rappresentazione simbolica della gravità del crimine commesso, insita nell’irrogazione della sanzione, è un potente antidoto alla perdita di memoria storica che tanto spesso apre la strada alla ripetizione della violenza. C’è chi sostiene che talvolta, di fronte alla tragicità di certi eventi, ricordare troppo è negativo perché impedisce di andare avanti e di ricominciare. Ma non si può veramente ricominciare, non si può veramente ricostruire, se non ristabilendo la verità. Questo obiettivo può essere raggiunto anche con strumenti diversi da quello giudiziario. E’ questo il senso dello sforzo che si sta compiendo in Sudafrica attraverso la Commissione per la verità e la riconciliazione. Ma certamente la risposta legale è quella che più limpidamente indica l’obiettivo di fare i conti con il passato, e sottolinea l’inaccettabillità dell’inerzia morale di una società di fronte alle atrocità di massa.

Dunque l’istituzione della Corte riveste grande importanza innanzi tutto per l’effetto di rafforzamento dei valori su cui si va costruendo un’azione della comunità internazionale volta alla protezione dei diritti umani. Ma occorre segnalare anche che l’istituzione della Corte segna una tappa decisiva del percorso di formazione di un diritto penale internazionale generalmente riconosciuto.

Nell’ottica di genere è di particolare significato la menzione esplicita di offese che consistono nella violazione del corpo femminile. Il risultato non era scontato in partenza, ed è perciò tanto più apprezzabile. In questo modo si compie un ulteriore e a mio parere decisivo passo avanti verso la piena integrazione dei diritti delle donne nel diritto internazionale.

La prima e più importante acquisizione consiste nel riconoscimento dello stupro come crimine di guerra e come crimine contro l’umanità. Lo stupro diventa il paradigma normativo della violazione del corpo femminile, e insieme di beni pertinenti all’umanità. Si riconosce cioè che purtroppo sempre più spesso l’aggressione alla pacifica convivenza tra identità diverse passa attraverso l’aggressione alla corporeità e alla sessualità femminile.

Tuttavia il processo non è esente da contraddizioni, e vistosi limiti si intravedono anche in alcune formulazioni contenute nello statuto della Corte.

Il più evidente riguarda la definizione di gravidanza forzata, che è stata oggetto di lunghe e difficili negoziazioni. Da una parte vi era la posizione della Santa Sede e di molte delegazioni di paesi musulmani e cattolici, che si opponevano alla introduzione della gravidanza forzata nello stesso paragrafo dedicato allo stupro, alla schiavitù sessuale, alla prostituzione forzata, alla sterilizzazione forzata, e a "ogni altra forma di violenza di comparabile gravità" (art. 7, §1, (g) e art. 8, § 1, (b), (xxii). La posizione favorevole all’inclusione era sostenuta dalla maggioranza dei paesi like-minded.

La mediazione è stata l’introduzione di una definizione di gravidanza forzata, valida sia per i crimini contro l’umanità sia per i crimini di guerra, secondo cui gravidanza forzata significa l’illegittima privazione della libertà, nei confronti di una donna resa gravida con la forza, con l’intento di modificare la composizione etnica di una popolazione ovvero di attuare un’altra grave violazione del diritto internazionale. Si chiarisce inoltre che la definizione non può essere interpretata in modo da mettere in discussione le leggi nazionali riguardanti la gravidanza.

E’ certamente da apprezzare il risultato costituito comunque dall’inserimento della gravidanza forzata nella lista dei crimini. Sarebbe stato un errore concettuale e pratico identificare la gravidanza forzata con lo stupro, sia dal punto di vista culturale sia dal punto di vista della politica criminale. Lo stupro infatti non esaurisce il disvalore della gravidanza forzata, poiché la commissione della violenza sessuale è un atto che seppur devastante, tuttavia si esaurisce in un tempo limitato, mentre la gravidanza forzata si traduce nell’asservimento duraturo del corpo femminile a un risultato procreativo non voluto. Dunque configura insieme una forma di servitù corporale e una lesione della libertà di autodeterminazione nel campo delle scelte riproduttive. Da un punto di vista di politica criminale, il mancato inserimento della gravidanza forzata avrebbe creato un’area di impunità, quando gli autori degli stupri di massa non sono fisicamente gli stessi soggetti che provvedono alla detenzione delle donne costrette non solo a subire violenza, ma a partorire "piccoli nemici".

Tuttavia queste considerazioni positive non possono far sfuggire la gravità dell’operazione culturale realizzata con la definizione. Non si tratta tanto del riferimento alle legislazioni nazionali sull’aborto. Tale riferimento è stato fortemente voluto dalla Santa Sede allo scopo di riaffermare la legittimità delle legislazioni antiabortiste, ma in realtà appare superfluo. Il linea generale, le norme incriminatici dello statuto non si applicano a comportamenti conformi alla legislazione nazionale adottata secondo procedure democratiche. La vicenda del processo di Norimberga insegna che questo criterio potrebbe subire un’eccezione solo se la legislazione nazionale presentasse un evidente carattere criminoso, con la previsione di azioni generalmente condannate dalla comunità internazionale, ad esempio la discriminazione razziale. Ma ciò non può certo dirsi per le norme antiabortiste, così come del resto per quelle che consentono l’aborto, poiché nel mondo è in corso una discussione, che da un punto di vista laico è scorretto affrontare identificando una sola delle posizioni in campo come contraria a principi assoluti di tutela della persona e di rispetto verso il valore della vita.

La negatività simbolica della definizione sta piuttosto nel riferimento alla finalità di modificare la composizione etnica di una popolazione. Nel tentativo di delimitare al massimo l’area di operatività della fattispecie incriminatrice, si è realizzato uno spostamento nell’individuazione del bene tutelato, dal corpo femminile e dalla libertà di scelta in campo riproduttivo della donna alla composizione etnica del suo gruppo di appartenenza. Si tratta di un procedimento di astrazione, ben noto anche al diritto penale italiano, che conduce alla scomparsa della donna-persona, dei suoi desideri e diritti, dietro a un bene astratto riferito alla collettività. Qui peraltro tale bene è particolarmente discutibile, poiché la composizione etnica di una popolazione non è in assoluto da considerare un valore, o per lo meno un valore meritevole di una protezione di tale pregnanza come quella apprestata dal diritto penale internazionale.

Qualche ulteriore considerazione, questa volta di carattere positivo, va fatta sull’inclusione della prostituzione forzata, fattispecie particolarmente discussa in ragione della asserita "normalità" dell’uso di prostitute del paese occupato da parte dell’esercito occupante. Qui il problema è stato risolto in modo limpido, poiché nel testo inglese compare l’espressione "enforced prostitution", laddove il termine "enforced" viene interpretato come comprensivo dei comportamenti posti in essere in attuazione di normative sia pure di fonte non legislativa e di carattere eccezionale come quelle vigenti in tempo di guerra. La sfumatura può essere apprezzata se si tiene conto del fatto che invece la gravidanza forzata è stata definita come "forced pregnancy", con una formulazione riferita ai comportamenti di mero fatto.

La protezione assicurata dalla lista dei crimini contro il corpo femminile è piena anche in virtù dell’introduzione di una norma di chiusura che consente di punire altre offese non esplicitamente nominate, ma caratterizzate da un grado di offensività comparabile a quello dello stupro e degli altri delitti specificamente individuati.

Un discorso a parte merita l’introduzione tra i crimini contro l’umanità della fattispecie di riduzione in schiavitù, con la specificazione che "enslavement" significa l’esercizio di alcuni o di tutti i poteri inerenti al diritto di proprietà su una persona, e include l’esercizio di tali poteri nel corso del traffico di persone, in particolare donne e minori (art. 7, § 2, (c). La formulazione rispecchia pienamente l’opzione, fortemente sostenuta dalla delegazione italiana, per una menzione esplicita della tratta, che tuttavia non fosse esclusivamente riferita allo sfruttamento sessuale del corpo femminile.

La ragione della propensione per una fattispecie di carattere generale è intanto di natura giuridica. Infatti la norma penale incriminatrice deve coprire tutti i casi che si verificano o potrebbero in futuro verificarsi nella realtà. Ad esempio, non vi sono ancora prove certe dell’esistenza in Italia di un flusso di traffico di minori finalizzato all’espianto di organi. Nei procedimenti censiti la fattispecie è stata contestata una sola volta, ma il procedimento non è ancora giunto alla sentenza di primo grado. Tuttavia la descrizione del reato dovrebbe essere abbastanza ampia da coprire anche questo caso.

A favore di una definizione ampia c’è però anche una ragione di carattere culturale e simbolico, che sconsiglia di ritagliare la fattispecie incriminatrice sul soggetto femminile o sugli scopi di carattere sessuale. E’ vero, naturalmente, che la grandissima maggioranza dei casi riguardano donne e ragazze trafficate al fine di sfruttamento sessuale. Tuttavia le donne non sono oggetto di tratta a causa di una speciale vulnerabilità legata alla loro corporeità o alla loro sessualità. Anzi il desiderio, la sessualità femminile nel traffico non c’entra proprio niente, mentre c’entra moltissimo quella maschile. Le donne sono prese di mira a causa degli altissimi guadagni che si realizzano con la vendita delle loro prestazioni sessuali. Ma sono prese di mira anche quando possono essere messe a lavorare negli scantinati a confezionare tessuti in condizioni di lavoro forzato. E in questo caso, per le stesse ragioni, sono presi di mira anche i minori, bambine e bambini, e sia pure molto più raramente i maschi adulti, specie se con qualche forma di disabilità. Perché dietro la tratta c’è il mercato, ci sono grandi profitti illeciti, ed è per questo che il traffico di persone è diventato rapidamente un grande business per le organizzazioni criminali. Questo, come ricorda Arlacchi, è il carattere antico e insieme modernissimo del fenomeno del traffico, e con questo occorre misurarsi. Invece l’apparentamento necessario della nuova fattispecie con la disciplina della prostituzione rischia di essere fuorviante, poiché distoglie l’attenzione dal nesso più significativo, cioè fra traffico di persone e altri traffici illeciti della criminalità organizzata.

L’integrazione della tematica dei diritti delle donne nel diritto internazionale, come si vede, è questione complessa, i cui percorsi non sono sempre intuitivi. Talvolta, a partire dalla soggettività e dall’esperienza femminile, è necessario valorizzare la sessuazione del linguaggio giuridico e delle forme di tutela, come ad esempio nel caso dello stupro e dei delitti che violano il corpo-mente delle donne. In questo caso infatti vi è un grado di corrispondenza accettabile tra l’esperienza femminile e la sua rappresentazione giuridica, tra la libertà femminile e la costruzione concettuale dell’autodeterminazione in relazione alla sessualità e alle scelte procreative. Talvolta invece la sessuazione può giocare come fattore regressivo, se contribuisce a costruire una raffigurazione dell’offesa troppo centrata sul processo di vittimizzazione e sull’identificazione tra l’essere vittima e l’essere donna.

Quando si parla di repressione penale e di diritti delle donne, è necessario evitare che l’unica possibile ricerca di senso sia attorno alla vittimizzazione. In linea di massima nella costruzione delle norme giuridiche occorre a questo scopo puntare più sulla precisa individuazione del comportamento dell’autore che sulle cause di vulnerabilità della persona che subisce la violazione. Ma naturalmente le questioni sono quasi sempre assai più complesse. L’importante è tenere fermo il criterio generale.

Un’ultima considerazione. Fin dalla pubblicazione di "Non credere di avere dei diritti", il femminismo italiano ha nutrito grande diffidenza nei confronti della strategia dei diritti. In passato ho considerato giustificata e ho condiviso la preoccupazione che un discorso sull’uguaglianza e sui diritti come percorso di pura e semplice inclusione nel modello culturale e di tutela dato potessero essere una perdita per la soggettività femminile, che sarebbe stata ineluttabilmente ingabbiata in schemi predefiniti, neutri, astratti, ignari della differenza sessuale e dell’esperienza femminile.

Il quadro che ho cercato di tracciare, con riferimento a un passaggio importante della costruzione del diritto internazionale, mostra che la situazione è in movimento, e che non esistono più paradigmi rigidi che non possano essere rimodulati allo scopo di accorciare la distanza tra esperienza femminile e norma giuridica. Soprattutto, mi sembra che il senso complessivo del processo sia nella direzione della problematizzazione e del confronto con l’orizzonte di senso della differenza, anche se non ancora della costruzione di un nuovo sistema concettuale di riferimento. In questo quadro, occorre riprendere in mano la riflessione sui diritti, e fare interagire il portato culturale della differenza sessuale con l’ordinamento giuridico. Ciò non solo oggi è possibile, ma se ne intravedono alcune possibili linee di tendenza.

A Pechino si disse che i diritti delle donne sono diritti umani. A cinque anni di distanza, il passaggio ulteriore potrebbe essere sintetizzato così: l’integrazione dei diritti delle donne nel sistema dei diritti umani opera come potente fattore critico di decostruzione-ricostruzione dell’ordinamento giuridico, poiché consente di rimettere a tema e rivisitare globalmente alcune categorie fondanti dell’ordinamento, dal rapporto tra uguaglianza e differenza, al rapporto tra corporeità, soggettività giuridica e beni fondamentali dell’umanità tutelati dal diritto, al rapporto tra natura e cultura, corpo e mente, appartenenza e identità, diritti e poteri. Sono sempre più convinta che per questa via si possa recuperare l’universalismo giuridico senza perdere di vista l’orizzonte di senso della differenza sessuale.