Tornare da Pechino*

di Gabriella Rossetti



Tornare da Pechino non è facile. Per questo, forse, questo ritorno deve essere condiviso tanto e forse più che l'andata e la permanenza nei viali colorati di Huairou e nei luccicanti e più anonimi locali della Conferenza. Condividere il ritorno non significa solo raccontare ciò che si è fatto, visto, ascoltato. Si vorrebbe dar seguito, mantenere in vita, tradurre hei propri luoghi, piccoli o grandi, centrali o periferici che siano, tutto ciò che ha fatto della IV Conferenza Mondiale sulla Donna quell'evento straordinario di cui tutti hanno detto o ascoltato qualcosa nel corso di quelle tre settimane di settembre. Un evento fatto di parole soprattutto. Cosa che ha fatto dire a qualcuno che, in fondo, si è trattato "solo" di parole e ad altri che devono guardarsi, le donne, dal fidarsi delle parole.

In una intervista a tutta pagina, pochi giorni dopo la chiusura della Conferenza, un noto giornalista italiano raccoglie una intervista a Susan Sontag sul significato di Pechino; ci sono accenni al mutamento epocale che si produrrebbe se davvero il prossimo secolo fosse quello dello sguardo delle donne sul mondo, si nomina il "mistero" che, nel pensiero filosofico e politico, ancora copre il rapporto uomo donna e il suo intreccio con la violenza, ma si finisce per condensare il tutto nel paternalistico ammonimento (credo più dell'intervistatore che dell'intervistata): in conferenze come questa si fanno solo discordi; le donne, ingenuamente, continuano a crederci.

Un equivoco grave. Un alibi, usato da molti testimoni svogliati o impauriti, per gettarsi dietro le spalle qualcosa che non è riuscito a "fare notizia" nel senso tradizionale del termine perché non si è prestato alla teatralizzazione e personificazione di conflitti possibilmente elementari e noti. Non è il Nord contro il Sud, come era stato vent'anni fa e come qualcuno aveva tentato di rilanciare ridipingendo scene di femministe bianche privilegiate intente a imporre corruzione e devastazione morale sulle donne "povere ma oneste" del Sud del mondo. Non sono i conflitti tra laicità e religioni, tra i motivi della ragione e quelli dell'etica e della fede, che si erano forzatamente imposti sulla scena della Conferenza del Cairo su Popolazione e Sviluppo. Non sono più i conflitti tra Occidente e Oriente impegnati a difendere due schemi diversi dei diritti umani: civili e politici gli uni, economici e sociali gli altri, come era stato per tutti gli anni della guerra fredda. Non sono neppure, semplicemente, i noti motivi del conflitto tra i sessi: la violenza sessuale, l'esclusione e l'inferiorizzazione delle donne, temi presenti ovunque negli incontri del Forum e in prima linea nella piattaforma della Conferenza, sono diventati qualcosa di molto più importante che non un capitolo della lunga guerra tra i sessi. Non è agli uomini, infatti, che si chiedono le soluzioni. Non è il "maschilismo" delle istituzioni che si mette sotto accusa. C'è una sottile, ma fondamentale novità: si parla direttamente ai governi, alle istituzioni, agli eserciti, agli attori del mercato internazionale e si dice loro che cosa non va, che cosa fa di questo mondo un luogo sempre meno adatto alla sopravvivenza e alla convivenza dell'umanità. Che la libertà e 1'audacia di questo sguardo critico siano libertà e audacia di donne e cosa che non ci si sofferma più di tanto ad analizzare. Va da sé. Che la volontà di perseguire gli ambiziosi obiettivi della piattaforma sia la volontà di chi l'ha resa possibile e l'ha difesa mediando e spesso perdendo su molti punti è cosa che si percepisce non solo nei momenti più caldi del Forum, ma anche in alcune sedute plenarie della Conferenza e, raccontano in molte, in più di un momento delle faticosissime mediazioni sulle parole in parentesi.

Parole potenti

L'equivoco in cui è caduto chi ha sottovalutato le "parole" di Pechino è dunque duplice. Si è voluto rappresentare la Conferenza come un palcoscenico su cui troneggiavano l'ONU e i rappresentanti dei governi circondati da una massa di donne questuanti che, al più, ce l'avevano fatta ad arrivare sotto il palco dei grandi poteri.

Non ci si è accorti che le donne erano già là sopra; mescolate ad altri, non tutte uguali tra loro, ma ben convinte di esserci e decise a rimanerci, impegnate proprio a produrre quelle parole della politica internazionale che diventano fatti della storia solo quando a pronunciarle è chi vi riversa la propria esperienza del mondo e il proprio desiderio di cambiamento.

Parole chiave, parole potenti. L'altra cosa che in molti non sono riusciti a vedere: che la potenza simbolica che ha fatto e disfatto le identità di genere in tutte le storie che si conoscono, a Pechino è passata di mano, e, nel contempo, si èintrecciata con il microcosmo dei piccoli progetti di donne nelle campagne dello Zimbabwe o del Bangladesh e con il macrocosmo di una Piattaforma d'azione che inizia con "Noi, i Governi che partecipano alla IV Conferenza sulle Donne."

Allargare la scena

E’ interessante notare che proprio i media "tradizionali" si siano rivelati forse gli strumenti meno adatti a percepire questa qualità specifica delle parole pronunciate a Pechino e abbiano spesso finito per privarle della loro storia, della ricchezza delle molte traduzioni linguistiche e culturali che si sono rese necessarie per mettere a confronto, per esempio, termini come "uguaglianza" e "equità", "diritti alla salute sessuale e riproduttiva" e "diritti sessuali" "diritti umani" e "differenze culturali". Questo fa pensare che proprio uno dei compiti del ritorno da Pechino sia quello di allargare la scena, di rendere visibile la storia e le storie che stanno attorno alle parole, di creare luoghi compatibili con quella straordinaria copresenza del piccolo e del grande progetto, del periferico e del centrale, dei passati e dei futuri. Là sono state insieme, queste cose, nella fisicità di un unico luogo; ne siamo tutte rimaste sbalordite e compiaciute. Evidentemente questi intrecci erano già avvenuti prima, quelle consonanze che si coglievano li tra donne dei luoghi di guerra, tra donne dei paesi dell'ex comunismo, tra donne impegnate e rileggere i testi sacri delle loro tradizioni religiose, tra economiste e volontarie dei microprogetti di credito alternativo, si erano già prodotte

nella storia degli ultimi dieci, venti anni. Ci voleva Pechino per rendere visibile non solo questo immenso network, ma questa consonanza di voci dissonanti.

Una grande, udibile consonanza

Una visibilità, questa, che è stata soprattutto prodotta dal Forum. Si poteva essere tentati, e molta stampa è caduta in questa tentazione, di descrivere il Forum come il luogo delle emozioni e degli affetti, del colore e degli entusiasmi, del carnevale dei corpi da contrapporre alla Conferenza dei Governi come il luogo delle ragioni della politica, della ragionevolezza delle mediazioni, della dura realtà dei principi di efficacia e di efficienza. Niente di più fuorviante. Se si confrontano le due dichiarazioni finali, quella del Forum e quella della Conferenza, non vi è dubbio che nella prima i toni sono più esacerbati e i contenuti più radicali. Ma non è questa forse la cosa più rilevante.

Può sembrare paradossale, ma mi pare che dal confronto emerga che nella dichiarazione del Forum si parla meno di donne e più di temi di interesse globale: "...Viviamo in un mondo segnato da crescente povertà, disuguaglianza, ingiustizia, disoccupazione e distruttività ambientale... Il modello dominante di sviluppo e l'economia globale di mercato generano grande ricchezza materiale per pochi mentre impoveriscono i più e creano sradicamento e razzismo... e incoraggiano l'iperconsumo e la proliferazione degli armamenti... La globalizzazione delle cosiddette economie di mercato è la causa prima dell’aumento della ferriminilizzazione della povertà ... cosa che viola i diritti umani e la dignità ... (pertanto) ... Chiediamo che si ponga fine a queste condizioni e rifiutiamo di accettarle come inevitabili per il futuro dell'umanità. I diritti delle donne sono diritti umani."

Si tratta, "semplicemente", di affermare una rivoluzione copernicana nel modo di pensare la politica e la concatenazione di cause e di effetti. La filosofia di fondo è contenuta nella collocazione centrate (a tutte maiuscole) di quell'ultima frase. Come dire che se si colloca al centro la convinzione che le violenze e le discriminazioni nei confronti delle donne non sono errori di percorso, distrazioni o arretratezze, ma il cuore, la base delle altre forme di violenza, proprio perché taciute (ovvero che sono taciute proprio perché sono quella radice che non si vuole dissotterrare), se si fa questa operazione (giuridica, economica, culturale) allora, inevitabilmente, le cose cambieranno.

Ciò che, nella dichiarazione del Forum, si esprime in un linguaggio assertivo, inevitabilmente in quello della Conferenza assume la forma della richiesta e della rivendicazione. Ma è nella dichiarazione del Forum che si svela quella che secondo me è la novità della IV Conferenza: parlare meno "di" donne, ma parlare di più, "1e" donne, di macrocconomia, di principi irrinunciabili della convivenza umana (i diritti), di forme di vita politica che garantiscano la credibilità e la trasparenza delle istituzioni. Non solo: ma, anche, parlare di tutto ciò dal punto di vista di pratiche in atto, di cose fatte e da farsi, di esperienze e esperimenti dai quali stanno emergendo piccoli, ma potenti modelli di modi nuovi di garantire quella "democraziadi bassa intensità", cioè diffusa e capillarmente gestita, dell'economia, della politica, delle leggi e dei linguaggi simbolici delle culture.

Verso nuove pratiche

E questo che si vedeva spesso in atto al Forum quando, per esempio, in una serie di seminari sul tema dell'empowerment economico (prima priorità per la regione Africa) donne di ONG di Uganda, Kenya e Tanzania presentavano i risultati di una ricerca sui modi in cui erano state investite (e risorse che avevano creato il debito e concludevano chiedendo, provocatoriamente, chi era indebitato con chi, dichiarando, abbastanza esplicitamente, l'estraneità della gran parte della popolazione, della società civile, dei loro paesi a scelte economiche avvenute in regime di totale assenza di "democrazia anche economica". Le stesse donne che dieci anni fa, a Nairobi, dicevano "vogliamo acqua", oggi dicono "vogliamo acqua e non Coca Cola"; quelle dei microprogetti generatori di reddito si misurano con il GATT e i termini di scambio che strozzano le capacità di esportazione dei loro paese; non si rivolgono più (o non soltanto) ai paesi donatori per reperire risorse da investire nello sviluppo sociale e per le donne, ma anche ai loro governi e al FMI e propongono la creazione di un Consiglio per l'Empowerment economico delle donne che si occupi dei termini di scambio di mercato, dell'agricoltura e dei settori informali, sottoponendo a dura critica (e autocritica) anche le loro stesse organizzazioni e l'equivoca posizione di subalternità verso l'esterno/privilegio in cui si sono trovate coinvolte, nel recente passato, all'interno del mercato degli aiuti intemazionali.

Una presa ferma sulla realtà che si mostrava anche ogni volta che si intrecciavano discussioni su i "fondamentalismi" religiosi, quasi sempre al plurale, mai liquidati come irrazionali ritorni del passato, ma il più delle volte definiti come pezzi di una "ideologia postmoderna" che svela alcuni nodi dei nessi tra etica e politica che non possono non essere d’interesse generale. Denuncie, ma anche pratiche di lavoro: i gruppi delle teologhe, ma anche i progetti di formazione di base delle periferie urbane e delle campagne del Nord Africa che mettono al centro i temi dell'identità religiosa e ritornano alle narrazioni sacre ogni volta che si insegna una tecnica agricola o l’alfabeto.

Di nuovo, anche qui, come su altri temi centrali quali la misurazione del valore del lavoro di cura o la denuncia del nesso tra guerra e violenza sul corpo delle donne, il passaggio dalle pratiche politiche del Forum al linguaggio più rivendicativo e "negoziale" della Conferenza rivelava l'impossibilità di tenere separati i due momenti. Ciò che richiede una riconcettualizzazione del mondo, in altre parole, fa fatica a tradursi in richieste di aggiustamento perché dovrebbe prima di tutto tradursi in riforma delle istituzioni della grande politica e della loro capacità di rendere conto a chi le interroga dall'esterno, ma anche, oramai, dall'interno. Forse questo è già successo, almeno in parte, a Pechino. Il fortunato slogan degli anni passati "agire localmente e pensare globalmente" sta per cedere il passo all'evidente bisogno di "agire e pensare sia localmente che globalmente" in ogni parte del mondo.

*Tratto da Speciale Pechino nn. 5/6, supplemento ai nn. 5/6 1995 di Aidos news